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ultimo accesso: 26 luglio

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Cosa ci insegna Catullo sul nostro rapporto con i robot

Cosa ci insegna Catullo sul nostro rapporto con i robot
(reuters)
Alcune sue poesie hanno gli stessi meccanismi dei nostri post su Facebook e Instagram
2 minuti di lettura
 

Grazie ai miei figli ha riscoperto il greco e il latino. Non tanto le versioni, quanto la letteratura. E’ un ripasso istruttivo. Per esempio, rileggendo Catullo - che ho sempre adorato - ho notato come certe poesie adottino gli stessi meccanismi dei nostri post su Facebook e Instagram, quando vogliamo mandare un messaggio alla persona amata che ci ha lasciato. Tipo: lo sto dicendo al mondo quanto soffro solo perché anche tu lo sappia e capisca che nessuno ti amerà mai così.

 

In questo viaggio nel tempo mi è capitato un filosofo greco, Senofane, il quale diceva che se gli animali potessero disegnare, i cavalli raffigurerebbero dio come un cavallo e i buoi come un bue. Questa attitudine spiega perché da sempre continuiamo a fare robot di sembianze umane: sì, lo so, ce ne sono di forme diversissime, ma la stragrande maggioranza è antropomorfa. Dal primo, il famoso Elektro, che debuttò il 30 aprile 1939 alla fiera di New York intitolato “il mondo di domani”. Elektro era stato realizzato in due anni dalla Westinghouse ed era un colosso: alto più di due metri, pesava oltre cento chili. Conosceva 700 parole ma non sapeva combinarle fra loro, parlava per frasi fatte. In compenso poteva svolgere ben ventisei azioni diverse, tra cui spiccava la capacità di gonfiare un palloncino fino a farlo scoppiare (cosa che farà di Elektro un'attrazione nelle fiere di paese per circa un decennio). Ma la cosa per cui Elektro è passato alla storia è il fatto che sapesse accendersi una sigaretta e far finta di fumare.

 

Fare finta, sì. Perché i robot non hanno polmoni, non respirano davvero. Ma ci piace credere il contrario. Per questo li facciamo antropomorfi. Perché così diventano subito più familiari. Ma il risultato finale è il contrario. E’ l’allarme, la paura: vogliono prendere il nostro posto!, ci rubano il lavoro!. Quante volte è stato detto? I robot invece non ci rubano il lavoro, ormai è dimostrato scientificamente; ma fanno lavori faticosi, pericolosi e usuranti che giustamente non vogliamo fare. Se scoppia una centrale nucleare chi è meglio mandare in ricognizione? Un essere umano o un robot? E quando brucia Notre Dame a Parigi, chi va a spegnere l’incendio in prima linea? Un robot. Del resto i paesi che hanno investito di più in tecnologia e automazione sono quelli dove l’occupazione è cresciuta di più, ma si è trasformata. Non parliamo di nuovi posti di lavoro, ma di posti di lavoro nuovi, diversi. Che prima non c’erano. E’ un problema di competenze, certo: disporre delle competenze necessarie per farli questi nuovi lavori. Non di mancanza di occupazione.

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Cosa studiare per essere assunti in una startup

Cosa studiare per essere assunti in una startup
Su Italian Tech tutte le offerte di lavoro delle startup italiane aggiornate in tempo reale
1 minuti di lettura
 

Stiamo entrando in una fase economica complicata, lo hanno capito tutti, e dobbiamo aggrapparci alle poche cose che ancora sembrano funzionare. Le aziende che assumono nonostante la crisi.

 

Da oggi su Italian Tech, in collaborazione con Cassa Depositi e Prestiti, pubblichiamo tutte le offerte di lavoro delle startup italiane aggiornate in tempo reale. Mentre vi scrivo sono più di mille. Mille posti di lavoro qualificati, ben pagati, in realtà giovani e dinamiche che stanno crescendo. Non fattorini per portare la cena a domicilio, insomma; o magazzinieri per movimentare i pacchi dei nostri acquisti online.  Per un giovane che abbia finito gli studi, quelle offerte di lavoro sono la situazione ideale.

 

Tra le professioni più richieste ci sono ovviamente gli sviluppatori di software, gli esperti di marketing digitale, ma nel database ci sono anche contabili, venditori e addetti alla comunicazione. Il ventaglio è ampio. Per alcuni posti è necessario stare in sede, per altri è richiesto di trasferirsi all’estero, dove la startup sta cercando di aprire nuovi mercati; per altri ancora è possibile lavorare da casa o da dove si vuole, secondo quella interpretazione estensiva dello smart working che prende il nome di remote working, lavoro a distanza. Più di mille posti di lavoro dall’ancora piccolo ecosistema startup nostrano sono tanti. Dimostrano che nonostante le difficoltà nel trovare capitali, in Italia stanno crescendo aziende solide. E indicano chiaramente una strada ad un giovane in cerca di un impiego: il principale problema non è la mancanza di lavoro, spesso è la mancanza di competenze adeguate. Ma per acquisirle basta studiare nei corsi giusti. Per questo abbiamo lanciato i master della Italian Tech Academy. 

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Dirlo in dialetto anche alla nonna

 
Le schede dei cinque referendumo su cui si è votato domenica. Nessuno ha raggiunto il quorum

Le schede dei cinque referendum su cui si è votato domenica. Nessuno ha raggiunto il quorum

Ha ragione Luigi Manconi quando dice che se fra i referendum ci fosse stato anche quello sulla depenalizzazione della coltivazione della cannabis il quorum ai referendum si sarebbe probabilmente raggiunto. Ma la Corte costituzionale ha bocciato quel quesito, inammissibile perché mal posto. Ricordo bene l’ironia che si è scatenata sull’incapacità lessicale dei promotori: non ci sono più i radicali di una volta, i nuovi non sanno neppure scrivere in italiano.

Ora: non sarà stato solo per questo, e certo da un punto di vista giuridico le domande sui temi di giustizia erano ben poste, tuttavia io non conosco nessuno – neppure tra persone molto ben informate per indole o per mestiere – che alla vigilia del voto abbia saputo spiegare a un vicino, a un amico, a un parente o conoscente di che cosa si trattasse. Certo l’ignoranza non scusa, per restare al linguaggio della legge, la responsabilità di chi non sa resta sua. Certo la campagna politica è stata flebile e quella mediatica impercettibile. E poi faceva caldo, si poteva andare al mare – per fare il verso a quell’antico invito.

Penso però che quando qualcosa tocca la sensibilità diffusa, se riguarda un tema che le persone riconoscono non c’è giro di parole che lo possa occultare. Si capisce sempre, qualcosa che davvero ci riguarda. La distanza tra il linguaggio della burocrazia e quello della strada è un falso ostacolo, se l’oggetto della domanda si può tradurre e riferire in dialetto anche alla nonna. L’uso dei referendum è uno strumento a doppio taglio. Abusarne, farne cartaccia è un rischio grande. Più di tutto, lo depotenzia non rispettarne gli esiti. Sull’acqua pubblica, per esempio, sappiamo come andò: nulla è mai successo.

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Le parole giuste

Le parole giuste
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La prima cosa bella di lunedì 13 giugno 2022 sono le parole giuste e quelli che si dannano per trovarle: una forma di rispetto per sé stessi, per la lingua parlata o scritta, ma non soltanto. Nel libro di Tove Jansson Il campo di pietra il vecchio giornalista dice al suo direttore: "Parole, milioni di parole che ho scritto per il tuo giornale, capisci cosa vuol dire aver scritto milioni di parole e non poter mai essere sicuri di aver scelto quelle giuste? E così si diventa silenziosi, sempre più silenziosi". Vuol dire bloccarsi al bivio tra una ripetizione e l'uso di un sinonimo, con la sensazione che solo la prima scelta sia efficace, ma possa irritare. Cercarla allora, quell'altra parola, ma dentro di sé, non con "Google-sinonimi", perché riesca naturale quanto la prima. Sapere che non ci saranno più reti: né editor, né correttori di bozze, nessuno che dia un'ultima occhiata. Senza filtri. Non confondere velocità con sciatteria (non sono sinonimi). Sentire una ferita rendendosi conto, più tardi, che si poteva usare una parola migliore. E smettere di rileggersi. Milioni di parole per diventare silenziosi. Tacere se non si hanno parole necessarie, utili a qualcosa o qualcuno. Portare rispetto al lettore, il più cortese tra gli estranei.  

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Dancin’ men

Dancin’ men
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La prima cosa bella di martedì 14 giugno 2022 sono gli uomini che ballano da soli, quando nessuno li vede, persone serie travolte da un improvviso desiderio di assecondare la vita. E’ un impulso che non ha spiegazione logica. Li vedi rigidi ai concerti, in discoteca non li vedi proprio, hanno bisogno del loro spazio e tempo e neppure loro sanno quando accadrà. Tornano da una lezione di filosofia del diritto, dalla chiusura del giornale di cui sono direttori, dal tribunale. Appendono la giacca. Esitano. Li ha fregati Norman Mailer con I duri non ballano, ma ha scritto anche altre cose sbagliate. Balla perfino Salvini, ma si pesta i piedi da solo. Gli altri invece rivelano inattesa eleganza, infantile allegria, sincronia con tutti i possibili tempi. Certo, c’è bisogno della musica giusta, perché questi di solito ascoltano Keith Jarrett o Leonard Cohen. Ma questa è la seconda sorpresa: non aspettatevi Let’s dance di David Bowie o Satisfaction dei Rolling Stones. Quando si scravattano lo fanno in ogni possibile senso. Esiste una playlist per duri che ballano. Se la passano. Nell’olimpo di hit parade: al numero 3 Don’t let me be misundesrtood dei Santa Esmeralda, al numero 2 Una vita in vacanza dello Stato Sociale e al numero 1 Get Lucky dei Daft Punk. State fermi, se ci riuscite. 

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(Leggo)

«egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» Mt 5,43-48.

Gesù dice le cose come se fossero le più naturali al mondo. Gli uomini di fede amano, è risaputo.  Ma, in fondo, chi amiamo? Persone che ci stanno simpatiche, che la pensano come noi, che appartengono al nostro gruppo, che ci piacciono. In fondo amiamo coloro che ci amano, restituiamo un sentimento, magnifico! Esattamente come fanno tutti, anche coloro che non credono. Gesù è tagliente e destabilizzante mentre parla: cosa facciamo di straordinario se amiamo chi ci ama? Cosa c'è di eroico nel voler bene a chi se lo merita? Gesù ribalta la prospettiva: il discepolo è chiamato ad amare ogni uomo, nemico o amico.

(Prego)

Padre santo, custodiscili nel tuo nome,
perché siano, come noi, una cosa sola. (Gv 17,11)

(Agisco)

Coltivare la mitezza senza perdere il gusto della verità.

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Il partito del pistone

di Riccardo Luna
 

Il partito del pistone (reuters)

Siamo tornati ai tempi di quando arrivarono le prime automobili. E i maniscalchi erano preoccupati perché il loro lavoro presto non ci sarebbe più stato

 1 MINUTI DI LETTURA

Quando arrivarono le prime automobili, i maniscalchi capirono che il loro lavoro presto non ci sarebbe più stato. L’opinione pubblica era divisa. Molti erano contrari a questi rumorosi oggetti a quattro ruote e alla fine il Parlamento inglese varò una legge che imponeva alla automobili di circolare a passo d’uomo: letteralmente, nel senso che dovevano essere precedute da una pedone con una bandiera rossa in segno di pericolo. Quella legge la chiamarono Red Flag Act e non ha salvato il destino dei maniscalchi.

Nel 2035

di Riccardo Luna
 

 

Né, a conti fatti, si può affermare che l'industria automobilistica abbia creato meno posti di lavoro di quella che prima ruotava attorno ai cavalli e alle carrozze. Anzi, ai tempi i più scaltri fra i costruttori di carrozze si convertirono alla costruzione di automobili. Questo aneddoto mi è tornato in mente leggendo i lamenti di un nostro ministro dopo la decisione del Parlamento europeo di fermare la produzione di automobili a benzina o diesel dal 2035. Ovvero tra tredici anni. Dice, il ministro, che rischiamo di perdere 70 mila posti di lavoro. Un dato non suffragato da alcuna seria analisi del comparto industriale; e che non tiene conto di quelli che invece verranno creati realizzando il piano verde dell’Europa: pensate agli impianti di energie rinnovabili con le quali sostituiremo la dipendenza dai combustibili fossili.

Il futuro del resto fa sempre questo effetto ad alcuni: fa venire voglia di tornare al passato. Di alzare una bandiera rossa in segno di pericolo. Ma qui l’unico pericolo è il cambiamento climatico. Il fatto che è andato così avanti che forse il 2035 potrebbe essere addirittura tardi. E invece la decisione dell’Europa è sacrosanta. Se nel governo italiano prevalesse il partito del rinvio vorrebbe dire che ai nostri figli un giorno diremo che non abbiamo fermato la fine del mondo perché dovevamo difendere chi costruisce bielle e pistoni. 

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Il partito del pistone

di Riccardo Luna
 

Il partito del pistone (reuters)

Siamo tornati ai tempi di quando arrivarono le prime automobili. E i maniscalchi erano preoccupati perché il loro lavoro presto non ci sarebbe più stato

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Quando arrivarono le prime automobili, i maniscalchi capirono che il loro lavoro presto non ci sarebbe più stato. L’opinione pubblica era divisa. Molti erano contrari a questi rumorosi oggetti a quattro ruote e alla fine il Parlamento inglese varò una legge che imponeva alla automobili di circolare a passo d’uomo: letteralmente, nel senso che dovevano essere precedute da una pedone con una bandiera rossa in segno di pericolo. Quella legge la chiamarono Red Flag Act e non ha salvato il destino dei maniscalchi.

Nel 2035

di Riccardo Luna
 

 

Né, a conti fatti, si può affermare che l'industria automobilistica abbia creato meno posti di lavoro di quella che prima ruotava attorno ai cavalli e alle carrozze. Anzi, ai tempi i più scaltri fra i costruttori di carrozze si convertirono alla costruzione di automobili. Questo aneddoto mi è tornato in mente leggendo i lamenti di un nostro ministro dopo la decisione del Parlamento europeo di fermare la produzione di automobili a benzina o diesel dal 2035. Ovvero tra tredici anni. Dice, il ministro, che rischiamo di perdere 70 mila posti di lavoro. Un dato non suffragato da alcuna seria analisi del comparto industriale; e che non tiene conto di quelli che invece verranno creati realizzando il piano verde dell’Europa: pensate agli impianti di energie rinnovabili con le quali sostituiremo la dipendenza dai combustibili fossili.

Il futuro del resto fa sempre questo effetto ad alcuni: fa venire voglia di tornare al passato. Di alzare una bandiera rossa in segno di pericolo. Ma qui l’unico pericolo è il cambiamento climatico. Il fatto che è andato così avanti che forse il 2035 potrebbe essere addirittura tardi. E invece la decisione dell’Europa è sacrosanta. Se nel governo italiano prevalesse il partito del rinvio vorrebbe dire che ai nostri figli un giorno diremo che non abbiamo fermato la fine del mondo perché dovevamo difendere chi costruisce bielle e pistoni. 

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Un libro di Paolo Maria Rocco celebra a Sarajevo Izet Sarajlić

 
 
 

Il poeta tragico della bellezza e dell’amicizia

Un ponte tra l’Italia e i Balcani”, tra due culture che si sono parlate e scambiate, e che gli avvenimenti degli ultimi vorticosi decenni europei hanno fatto correre il rischio di allontanare: anche per questa ragione ha un valore storico il libro “Izet Sarajlić per Sarajevo-Vita e Poesia” (Il Foglio Letterario ed., con il Patrocinio dell’Ambasciata d’Italia a Sarajevo) che Paolo Maria Rocco ha dedicato al ventennale della scomparsa di Izet Sarajlić, il più importante tra i poeti balcanici del Secondo dopoguerra. Una voce che tutto il mondo ha potuto ascoltare, in vita soprattutto, ma anche in morte.

Nell’evento tenuto a Sarajevo per la presentazione del libro, l’Ambasciatore italiano in Bosnia, Marco Di Ruzza -che ha promosso l’iniziativa insieme con il Museo di Letterature e Arti Performative di Sarajevo diretto da Sejla Sehabović- ha rilevato l’importanza complessiva dell’impegno che Paolo Maria Rocco dedica da diversi anni alla diffusione della cultura balcanica in Italia e alla costruzione di occasioni di incontro interculturale.

Il libro presentato a Sarajevo rappresenta una pietra miliare per il rilancio dell’attenzione internazionale intorno alla figura di un poeta e di un intellettuale al quale la cultura in lingua slava ha sempre guardato come alla sua stella polare. Il libro raccoglie una conversazione del curatore con Tamara Sarajlić-Slavnić, figlia di Izet, e una lunga serie di testimonianze inedite di intellettuali, poeti, artisti e filosofi italiani e balcanici, che hanno studiato l’opera di Sarajlić o che lo hanno conosciuto personalmente diventandone amici e spesso condividendone le esperienze esistenziali: Braho Adrović, Erri De Luca, Jovan Divjak, Silvio Ferrari, Predrag Finci, Ottavio Gruber, Miso Marić, Naida Mujkić, Josip Osti, Ranko Risojević, Vesna Scepanović, Giacomo Scotti, Emir Sokolović, Bozidar Stanisić, Stevan Tontić, Gabriella Valera, Silvio Ziliotto, Pero Zubac.

Ne emerge un dialogo fitto che unisce le due sponde dell’Adriatico in nome dell’amicizia e della poesia, in nome di un poeta che -scrive Paolo Maria Rocco-: «ha continuato a cantare la bellezza e l’innocenza della vita, in questo senso, ancora una volta, proprio come il soldato Ungaretti che accanto al compagno morto in trincea scriveva lettere d’amore; poesie, perché è la poesia l’ultimo baluardo contro le atrocità dell’uomo: ‘chi ha fatto il turno di notte perché non si arrestasse il cuore del mondo? Noi i poeti’, scrive Sarajlić».

Forse la poesia che segue -dedicata da Izet Sarajlić a suo fratello Ešo, fucilato nel 1942 dai fascisti italiani- e che qui si presenta nella traduzione di Rocco, può illuminare più di ogni altra parola il senso della ricerca del grande poeta:

“Ameremo per loro stasera./ Ce n’erano 28/ Erano cinquemila e 28./ Ce n’erano più di quanto ci sia mai stato amore in una poesia./ Adesso sarebbero padri./ Adesso se ne sono andati./ Noi che sulle piattaforme di un secolo abbiamo pianto/ la solitudine di tutti i Robinson del mondo,/ noi che siamo sopravvissuti ai carri armati e non abbiamo ucciso nessuno/ mia piccola grande/ stasera ameremo per loro./ E non chiedere se sarebbero potuti tornare./ Non chiedere se sarebbe stato possibile tornare indietro/ mentre per l’ultima volta/ rosso come il comunismo, ardeva l’orizzonte dei loro desideri./ Attraverso i loro non amati anni, pugnalato e in piedi, / è passato il futuro dell’amore./ Non c’erano segreti nello stare sdraiati sull’erba./ Non c’erano segreti nella camicetta sbottonata./ Non c’erano segreti nel giglio cadente da mani esauste./ C’erano notti, c’erano fili spinati,/ c’era il cielo guardato per l’ultima volta,/ c’erano treni che tornavano vuoti e desolati,/ c’erano treni, c’erano papaveri,/ e con essi, con i tristi papaveri di un’estate militare,/ con magnifico senso di fratellanza, gareggiava il loro sangue./ E sui Kalemegdan e sulle Nevsky Prospekt,/ sui Boulevard del Sud e sui Quays degli addii,/ sulle Piazze fiorite e sui Ponti Mirabeau,/ meravigliose anche quando non amano,/ Anne, Zoje, Janet hanno aspettato./ Aspettavano il ritorno dei soldati./ Se non fossero tornati/ avrebbero dato ai ragazzi le loro bianche spalle mai abbracciate./ Non sono tornati./ Sui loro occhi fucilati sono passati i carri armati./ Sui loro occhi fucilati./ Sulla loro Marsigliese interrotta./ Sulle loro illusioni trafitte. Adesso sarebbero padri./ Adesso se ne sono andati./ Ora al convegno d’amore sono le tombe ad aspettare./ Mia piccola grande”.

Il libro “Izet Sarajlić per Sarajevo-Vita e Poesia” è scritto in due lingue, italiano e bosniaco, ulteriore tappa di avvicinamento alla conoscenza di una cultura molteplice e ricca come quella che si esprime in lingua slava, che si aggiunge all’ “Antologia di poeti contemporanei dei Balcani” allestita e tradotta insieme con il poeta bosniaco Emir Sokolović (2019, LietoColle), un unicum nel panorama letterario in lingua italiana e slava, alla silloge “Bosnia. Appunti di viaggio e altre poesie” di Paolo Maria Rocco (Ensemble ed.) con testo a fronte in lingua bosniaca di Nataša Butinar, e che oggi registra la traduzione con proposta di lettura critica del libro dello scrittore e filosofo Predrag Finci “La stazione e il viaggiatore”, con le foto artistiche di Milomir Kovačević Strasni, per le Edizioni “Il Foglio Letterario” (2022).

Paolo Maria Rocco è poeta e narratore egli stesso, premiato in Italia e all’Estero. In un prossimo articolo presenteremo la varietà del suo impegno di ricerca letteraria, e della originale proposta poetica.

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