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(Leggo)

«egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» Mt 5,43-48.

Gesù dice le cose come se fossero le più naturali al mondo. Gli uomini di fede amano, è risaputo.  Ma, in fondo, chi amiamo? Persone che ci stanno simpatiche, che la pensano come noi, che appartengono al nostro gruppo, che ci piacciono. In fondo amiamo coloro che ci amano, restituiamo un sentimento, magnifico! Esattamente come fanno tutti, anche coloro che non credono. Gesù è tagliente e destabilizzante mentre parla: cosa facciamo di straordinario se amiamo chi ci ama? Cosa c'è di eroico nel voler bene a chi se lo merita? Gesù ribalta la prospettiva: il discepolo è chiamato ad amare ogni uomo, nemico o amico.

(Prego)

Padre santo, custodiscili nel tuo nome,
perché siano, come noi, una cosa sola. (Gv 17,11)

(Agisco)

Coltivare la mitezza senza perdere il gusto della verità.

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Il partito del pistone

di Riccardo Luna
 

Il partito del pistone (reuters)

Siamo tornati ai tempi di quando arrivarono le prime automobili. E i maniscalchi erano preoccupati perché il loro lavoro presto non ci sarebbe più stato

 1 MINUTI DI LETTURA

Quando arrivarono le prime automobili, i maniscalchi capirono che il loro lavoro presto non ci sarebbe più stato. L’opinione pubblica era divisa. Molti erano contrari a questi rumorosi oggetti a quattro ruote e alla fine il Parlamento inglese varò una legge che imponeva alla automobili di circolare a passo d’uomo: letteralmente, nel senso che dovevano essere precedute da una pedone con una bandiera rossa in segno di pericolo. Quella legge la chiamarono Red Flag Act e non ha salvato il destino dei maniscalchi.

Nel 2035

di Riccardo Luna
 

 

Né, a conti fatti, si può affermare che l'industria automobilistica abbia creato meno posti di lavoro di quella che prima ruotava attorno ai cavalli e alle carrozze. Anzi, ai tempi i più scaltri fra i costruttori di carrozze si convertirono alla costruzione di automobili. Questo aneddoto mi è tornato in mente leggendo i lamenti di un nostro ministro dopo la decisione del Parlamento europeo di fermare la produzione di automobili a benzina o diesel dal 2035. Ovvero tra tredici anni. Dice, il ministro, che rischiamo di perdere 70 mila posti di lavoro. Un dato non suffragato da alcuna seria analisi del comparto industriale; e che non tiene conto di quelli che invece verranno creati realizzando il piano verde dell’Europa: pensate agli impianti di energie rinnovabili con le quali sostituiremo la dipendenza dai combustibili fossili.

Il futuro del resto fa sempre questo effetto ad alcuni: fa venire voglia di tornare al passato. Di alzare una bandiera rossa in segno di pericolo. Ma qui l’unico pericolo è il cambiamento climatico. Il fatto che è andato così avanti che forse il 2035 potrebbe essere addirittura tardi. E invece la decisione dell’Europa è sacrosanta. Se nel governo italiano prevalesse il partito del rinvio vorrebbe dire che ai nostri figli un giorno diremo che non abbiamo fermato la fine del mondo perché dovevamo difendere chi costruisce bielle e pistoni. 

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Il partito del pistone

di Riccardo Luna
 

Il partito del pistone (reuters)

Siamo tornati ai tempi di quando arrivarono le prime automobili. E i maniscalchi erano preoccupati perché il loro lavoro presto non ci sarebbe più stato

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Quando arrivarono le prime automobili, i maniscalchi capirono che il loro lavoro presto non ci sarebbe più stato. L’opinione pubblica era divisa. Molti erano contrari a questi rumorosi oggetti a quattro ruote e alla fine il Parlamento inglese varò una legge che imponeva alla automobili di circolare a passo d’uomo: letteralmente, nel senso che dovevano essere precedute da una pedone con una bandiera rossa in segno di pericolo. Quella legge la chiamarono Red Flag Act e non ha salvato il destino dei maniscalchi.

Nel 2035

di Riccardo Luna
 

 

Né, a conti fatti, si può affermare che l'industria automobilistica abbia creato meno posti di lavoro di quella che prima ruotava attorno ai cavalli e alle carrozze. Anzi, ai tempi i più scaltri fra i costruttori di carrozze si convertirono alla costruzione di automobili. Questo aneddoto mi è tornato in mente leggendo i lamenti di un nostro ministro dopo la decisione del Parlamento europeo di fermare la produzione di automobili a benzina o diesel dal 2035. Ovvero tra tredici anni. Dice, il ministro, che rischiamo di perdere 70 mila posti di lavoro. Un dato non suffragato da alcuna seria analisi del comparto industriale; e che non tiene conto di quelli che invece verranno creati realizzando il piano verde dell’Europa: pensate agli impianti di energie rinnovabili con le quali sostituiremo la dipendenza dai combustibili fossili.

Il futuro del resto fa sempre questo effetto ad alcuni: fa venire voglia di tornare al passato. Di alzare una bandiera rossa in segno di pericolo. Ma qui l’unico pericolo è il cambiamento climatico. Il fatto che è andato così avanti che forse il 2035 potrebbe essere addirittura tardi. E invece la decisione dell’Europa è sacrosanta. Se nel governo italiano prevalesse il partito del rinvio vorrebbe dire che ai nostri figli un giorno diremo che non abbiamo fermato la fine del mondo perché dovevamo difendere chi costruisce bielle e pistoni. 

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Un libro di Paolo Maria Rocco celebra a Sarajevo Izet Sarajlić

 
 
 

Il poeta tragico della bellezza e dell’amicizia

Un ponte tra l’Italia e i Balcani”, tra due culture che si sono parlate e scambiate, e che gli avvenimenti degli ultimi vorticosi decenni europei hanno fatto correre il rischio di allontanare: anche per questa ragione ha un valore storico il libro “Izet Sarajlić per Sarajevo-Vita e Poesia” (Il Foglio Letterario ed., con il Patrocinio dell’Ambasciata d’Italia a Sarajevo) che Paolo Maria Rocco ha dedicato al ventennale della scomparsa di Izet Sarajlić, il più importante tra i poeti balcanici del Secondo dopoguerra. Una voce che tutto il mondo ha potuto ascoltare, in vita soprattutto, ma anche in morte.

Nell’evento tenuto a Sarajevo per la presentazione del libro, l’Ambasciatore italiano in Bosnia, Marco Di Ruzza -che ha promosso l’iniziativa insieme con il Museo di Letterature e Arti Performative di Sarajevo diretto da Sejla Sehabović- ha rilevato l’importanza complessiva dell’impegno che Paolo Maria Rocco dedica da diversi anni alla diffusione della cultura balcanica in Italia e alla costruzione di occasioni di incontro interculturale.

Il libro presentato a Sarajevo rappresenta una pietra miliare per il rilancio dell’attenzione internazionale intorno alla figura di un poeta e di un intellettuale al quale la cultura in lingua slava ha sempre guardato come alla sua stella polare. Il libro raccoglie una conversazione del curatore con Tamara Sarajlić-Slavnić, figlia di Izet, e una lunga serie di testimonianze inedite di intellettuali, poeti, artisti e filosofi italiani e balcanici, che hanno studiato l’opera di Sarajlić o che lo hanno conosciuto personalmente diventandone amici e spesso condividendone le esperienze esistenziali: Braho Adrović, Erri De Luca, Jovan Divjak, Silvio Ferrari, Predrag Finci, Ottavio Gruber, Miso Marić, Naida Mujkić, Josip Osti, Ranko Risojević, Vesna Scepanović, Giacomo Scotti, Emir Sokolović, Bozidar Stanisić, Stevan Tontić, Gabriella Valera, Silvio Ziliotto, Pero Zubac.

Ne emerge un dialogo fitto che unisce le due sponde dell’Adriatico in nome dell’amicizia e della poesia, in nome di un poeta che -scrive Paolo Maria Rocco-: «ha continuato a cantare la bellezza e l’innocenza della vita, in questo senso, ancora una volta, proprio come il soldato Ungaretti che accanto al compagno morto in trincea scriveva lettere d’amore; poesie, perché è la poesia l’ultimo baluardo contro le atrocità dell’uomo: ‘chi ha fatto il turno di notte perché non si arrestasse il cuore del mondo? Noi i poeti’, scrive Sarajlić».

Forse la poesia che segue -dedicata da Izet Sarajlić a suo fratello Ešo, fucilato nel 1942 dai fascisti italiani- e che qui si presenta nella traduzione di Rocco, può illuminare più di ogni altra parola il senso della ricerca del grande poeta:

“Ameremo per loro stasera./ Ce n’erano 28/ Erano cinquemila e 28./ Ce n’erano più di quanto ci sia mai stato amore in una poesia./ Adesso sarebbero padri./ Adesso se ne sono andati./ Noi che sulle piattaforme di un secolo abbiamo pianto/ la solitudine di tutti i Robinson del mondo,/ noi che siamo sopravvissuti ai carri armati e non abbiamo ucciso nessuno/ mia piccola grande/ stasera ameremo per loro./ E non chiedere se sarebbero potuti tornare./ Non chiedere se sarebbe stato possibile tornare indietro/ mentre per l’ultima volta/ rosso come il comunismo, ardeva l’orizzonte dei loro desideri./ Attraverso i loro non amati anni, pugnalato e in piedi, / è passato il futuro dell’amore./ Non c’erano segreti nello stare sdraiati sull’erba./ Non c’erano segreti nella camicetta sbottonata./ Non c’erano segreti nel giglio cadente da mani esauste./ C’erano notti, c’erano fili spinati,/ c’era il cielo guardato per l’ultima volta,/ c’erano treni che tornavano vuoti e desolati,/ c’erano treni, c’erano papaveri,/ e con essi, con i tristi papaveri di un’estate militare,/ con magnifico senso di fratellanza, gareggiava il loro sangue./ E sui Kalemegdan e sulle Nevsky Prospekt,/ sui Boulevard del Sud e sui Quays degli addii,/ sulle Piazze fiorite e sui Ponti Mirabeau,/ meravigliose anche quando non amano,/ Anne, Zoje, Janet hanno aspettato./ Aspettavano il ritorno dei soldati./ Se non fossero tornati/ avrebbero dato ai ragazzi le loro bianche spalle mai abbracciate./ Non sono tornati./ Sui loro occhi fucilati sono passati i carri armati./ Sui loro occhi fucilati./ Sulla loro Marsigliese interrotta./ Sulle loro illusioni trafitte. Adesso sarebbero padri./ Adesso se ne sono andati./ Ora al convegno d’amore sono le tombe ad aspettare./ Mia piccola grande”.

Il libro “Izet Sarajlić per Sarajevo-Vita e Poesia” è scritto in due lingue, italiano e bosniaco, ulteriore tappa di avvicinamento alla conoscenza di una cultura molteplice e ricca come quella che si esprime in lingua slava, che si aggiunge all’ “Antologia di poeti contemporanei dei Balcani” allestita e tradotta insieme con il poeta bosniaco Emir Sokolović (2019, LietoColle), un unicum nel panorama letterario in lingua italiana e slava, alla silloge “Bosnia. Appunti di viaggio e altre poesie” di Paolo Maria Rocco (Ensemble ed.) con testo a fronte in lingua bosniaca di Nataša Butinar, e che oggi registra la traduzione con proposta di lettura critica del libro dello scrittore e filosofo Predrag Finci “La stazione e il viaggiatore”, con le foto artistiche di Milomir Kovačević Strasni, per le Edizioni “Il Foglio Letterario” (2022).

Paolo Maria Rocco è poeta e narratore egli stesso, premiato in Italia e all’Estero. In un prossimo articolo presenteremo la varietà del suo impegno di ricerca letteraria, e della originale proposta poetica.

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Vita da empatico

 
 
 

«Chi riconosce gli altri è dotto.
Chi riconosce se stesso è 
saggio.
Chi batte gli altri ha 
forza fisica.
Chi batte se stesso è 
forte.
Chi è 
soddisfatto è ricco.
Chi non perde il suo centro dura»

(Lao Tze)

L’empatia è educabile, è vero, però pensiamoci.

La vita di un empatico, in quattro parole e prima di capire che di empatia si tratta: una rottura di coglioni.  Una grossa, gigante, immensa ed  infinita rottura di coglioni!

Perché, francamente, a fare poesia o a dare definizioni elegantemente scientifiche, dopo aver fatto un percorso ed aver capito, siamo bravi tutti. Sì, occhei, più o meno tutti. Ancora? Va bene, più meno, che più. Diciamo che chi sa farlo, a conti fatti, vince facile. Vogliamo provare?

Empatia: in psicologia, la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo di un’altra persona. Nella critica d’arte e nella pubblicità, la capacità di coinvolgere emotivamente lo spettatore con un messaggio in cui lo stesso è portato a immedesimarsi.

Possiamo però alzarci oltre.

Diversa dal concetto di exotopia, coniato da Bachtin, con l’empatia l’operatore decontestualizza alcuni tratti dell’altrui esperienza, mantenendo valido il proprio contesto. Simula di “mettersi nelle scarpe dellaltro” ma in realtà, all’ultimo momento, “mette laltro nelle proprie scarpe”. Nell’exotopia, invece, la ricerca inizia quando, avendo cercato di mettersi all’altrui posto, ci si accorge che le sue calzature sono strette.

E la poesia?

Credetemi, potrei continuare a scrivere ancora molto e molto a lungo su questo, perché ad un certo punto ho dovuto approfondire, fosse stato anche solo per scrivere tesi che fossero un minimo accettabili; e non vi dico, da 110 e lode! Sì, certo, i numeri c’erano: il resto lo vediamo!

Ma ho dovuto studiare anche per dare un minimo di senso a quello che sto per dirvi.

Quindi, cosa stavo per dirvi? La poesia, le definizioni, le relazioni empatiche, i legami sociali… Ma anche sticazzi!

Sì, lo capisco bene che un inizio del genere non sia propriamente ortodosso e, ancor meno, porti l’idea della mia figura all’interno di un’aula di Cambridge, ma devo davvero chiedervi uno sforzo di comprensione.

Provateci un po’ voi a trascorrere 22616280 minuti, ovvero 15705 giorni, ossia 516 mesi, pari a 43 anni di convivenza forzata con chiunque, incluso il gatto nero che vi attraversa la strada, senza capire per quale dannata ragione dovete avere sempre interi condomìni di gente nel corpo, pur detestando anche solo averla attorno.

No, dico, vi sfido io a non convertirvi alla religione della misantropia!

Sono solo pochi anni che ho preso coscienza tanto di cosa stiamo parlando, quanto del perché io sia così terribilmente ed irrimediabilmente selettiva.

Il fatto è che, per esempio, l’empatico è in auto, sul sedile passeggero, il gatto nero attraversa la strada, partono le rinomate azioni e parole del caso da parte degli occupanti l’abitacolo e lui, l’empatico, tace. Intanto pensa:

– Che male ha fatto il quadrupede?

(E già qua dovrebbe farsi una domanda, posto che non ama i felini. Non che in quella domanda fosse espresso il linguaggio di S. Francesco, ma il minimo sindacale per lui, che proprio non li ama, avrebbe potuto essere infischiarsene: del resto il gatto aveva attraversato e lo avevano “deriso”, nessuno gli aveva fatto del male).

E poi parte la sensazione successiva: l’empatico si sente improvvisamente ricoperto da una pelliccia nera, ha la coda, è solo di notte al ciglio di una strada, vuole raggiungere l’altro lato dove c’è solo aperta campagna: una distesa non meglio definibile o definita di alberi perfettamente allineati, che rimandano un silenzio che supera De Andrè alla radio.

Non ha rotto le scatole a nessuno, è un felino ed è molto furbo, riesce a beccare l’istante perfetto per attraversare di corsa senza recare danno e, nonostante questo, loro devono temerlo, pensare alle peggiori disgrazie, ricorrere a non meglio specificati riti propiziatori relativi alle parti basse; lui sarà già arrivato dall’altro lato della campagna, loro, in auto, avranno percorso tutta la Salerno Reggio Calabria e staranno ancora parlando di lui.

Bene, è un felino, lo abbiamo capito. Se ne infischia della qualunque, per sua fortuna, ma sempre in una campagna totalmente buia è finito, in solitudine totale e probabilmente senza cibo, né acqua. Il tutto, mentre quegli umani sparano le peggiori idiozie e poi fanno anche finta di essere musicalmente preparati: mecojoni! Cantano De Andrè, mica Alessandra Amoroso!

– Che male avrò fatto?

Et voilà, il pensiero dell’empatico cambia il pronome. Si è fatto gatto.

Eccolo, dunque, un empatico. Per lui è sempre carnevale. Si ritrova travestito con gli abiti più impensabili, nei momenti più improponibili e pensa con la testa di quell’abito; ed è una testa non sua, ragion per cui non si può dare per assunto che quelli siano per lui pensieri immediatamente comprensibili!

Ancora una volta, in tre parole: schizofrenia portami via!

Perché, camminando “per una selva oscura, ché la dritta via era smarrita”, l’empatico non sa assolutamente cosa diavolo significhi quello che gli succede, né immagina che sia una cosa singolare. Lui conosce solo quel modo di stare al mondo, non possiede termini di paragone, non ha idea che non sia così per tutti.

È l’antica storia dei concetti che esistono grazie al loro opposto, che non sono come i concetti universali. Nel loro caso, ad esempio, si può pensare ad un rettangolo. Cosa sarà mai un rettangolo? Esiste? Lo si può toccare? Certo che no. Al più ci si può far venire in mente lo schermo di una tv, un foglio, il tavolo del salotto di casa di zia Franca. Tutto questo esiste, ma il rettangolo in sé no, non c’è.

Diverso è per il caldo, per esempio. Tanto lo si identifica quale caldo, perché si conosce il freddo; la luce, tanto la si identifica quale luce, perché si conosce il buio; la sazietà, tanto la si identifica quale sazietà, perché si conosce la fame. E così via.

Dunque l’empatico: lui non possiede termini di paragone, perché la sua patologia è inscritta nel suo DNA dacché è un embrione: assume innumerevoli personalità, uno, nessuno e centomila e non lo può capire. Vive così dacché è un bambino, una vita passata a percepire tutto, tutto, TUTTO, sempre, sempre, SEMPRE!

Tutto questo, peraltro, accade anche con le gioie degli interi condomìni che popolano il mondo e che l’empatico incontra, prima di capire che converrebbe andare a vivere in un eremo!

– Che bello, ho incontrato qualcuno felice!

#BelloNiente! Un empatico diventa talmente parte di quella felicità da sentirla prima, durante e dopo. Fino a piangerne e sentirsi scoppiare il cuore.

#ÈBellissimo! In verità è bellissimo. Ma la fatica!

E quindi, per carità, aiutatemi voi a spiegare. Posto che i numeri io li aborro, vi chiedo di compiere per me un puro atto aritmetico: moltiplicare quello che vi ho detto per ottordici, per millemila, per infinito!

Capite ora quanto possa essere sfiancate la vita di un empatico?

E badate bene, lui non si stacca mai nemmeno dalla sua, di vita: un’altra immensa botta di fortuna, da leggersi con la C maiuscola!

La morale del momento è che se l’empatico non si decide a capire il perché la sua vita funzioni così, finisce in una clinica psichiatrica.

Inizia a sentire le persone ancora prima di averle conosciute. A pelle, dice, quando ancora non sa cosa sia questo labirinto, ma almeno ha imparato ad aspettarselo.

E poi non si fida mai ciecamente delle prime impressioni: lo sa bene che le sue, in realtà, non sbagliano, ma non ce la fa a fidarsi in assenza di riscontri immediati e pratici. Del resto, non è che si possano buttare nel wc delle persone solo perché un istinto senza senso si sveglia e dice di no!

E giù di sensi di colpa, di domande, di allerta.

Cosa succede allora? Improvvisamente l’empatico capisce che ha la facoltà di attirare tanto altri empatici quanto persone totalmente prive di questa caratteristica, e sono le più pericolose. Quelle che la psicologia definisce “buchi neri”, che hanno solo bisogno di  egoistico nutrimento e succhiano linfa al prossimo, fino a fargli perdere la lucidità.

È per questo che un empatico può arrivare a detestare la compagnia: assorbe tante e tante di quelle cose che sono tutto ed il loro esatto contrario, da non riuscire sempre a farcela. Ha bisogno di ristoro. Quindi di una stanza murata: e i muri, si sa, tante cose fanno ma ancora non sanno provare emozioni.

La verità però è una: una persona siffatta viene sempre in pace. Non sempre vi chiederà come state, perché se siete trafitti, lei diventa trafitta ed è per quello che non farà domande: sa che non le gradireste in quel momento, salvo poi lasciarvi modellare dalle regole sociali, per le quali chi non chiede, è automaticamente disinteressato.

Una persona siffatta è sempre interessata, vi sente, non può farne a meno e riconosce ogni virgola: annusa la menzogna, l’imbarazzo, l’opportunismo ed anche tutti i loro opposti. Riesce, con l’istinto, a sferrare colpi da vero mentore senza lungaggini: ipso facto. Ma non vi farà mai del male, ne farebbe a sé stessa.

Ha ricevuto “il più antico sentimento dellanimo umano, che non è la paura, bensì lempatia. Prova dolore per il vostro dolore. È una benedizione e una maledizione allo stesso tempo” (Luca DAndrea).


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Una vecchia amica e quello che conta

 

la tenda

Sono stata a far visita a una vecchia amica, ha più di ottant’anni e mi aveva detto, per telefono: “Sarebbe così bello vederci ma so che hai tanto da fare: senza fretta, quando potrai”. Senza fretta, ha detto, e si sentiva dentro un sorriso. Il tempo corre in modo disuguale nelle stazioni della vita. Così ho preso il treno, una mattina, e sono andata. Mi ha accolta nella sua casa piccola davanti al mare, piena di luce e di tende che volano, di sculture di legno che ha dipinto negli anni, di cuscini e di bicchieri diversi.

Era scalza e aveva indosso una tunica rosa scuro, mi ha offerto un succo di frutta e ha cominciato a dire e domandare: dei russi, degli ucraini, dei libri candidati al premio Strega (“uno, consigliami, ma che sia da non restarci male”) di un film che non ha visto né vedrà (“non esco, troppa folla”), di politica e di referendum, sa tutto, dei referendum, di come cambia il tempo e di bellezza, che poca ce n’è. E’ stata – è ancora – una donna irresistibile. “Ho usato ogni secondo della vita, li ho vissuti tutti. Anche quelli che sembravano vuoti sono stati pieni, invece. Poi un giorno a ottant’anni, all’improvviso, ho capito che non potevo far più i tuffi a mare come prima. Così ho smesso, ma non di innamorarmi. Ci puoi credere? Di innamorarsi non si smette mai. Non ci si stanca”.

Ho fatto obiezione, timidamente, lei ha sorriso: “Che ne vuoi sapere tu che sei una ragazzina”. Abbiamo ricominciato a discutere di politica, ne ha fatta tanta, ne sa tanto, mi ha spiegato alcune cose scure. Poi al momento di congedarsi, sulla porta, ha detto “lascia che gli altri si avvicinino, non difenderti, non serve. La sincerità dei sentimenti, ascolta solo quella. Vai, e torna presto”.

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The Duffer Lesson

The Duffer Lesson
1 minuti di lettura
 
 

La prima cosa bella di venerdì 10 giugno 2022 è la cosa migliore della serie televisiva Stranger Things: la storia dei suoi creatori, i gemelli Duffer. La quarta stagione è il più grande successo per una serie in lingua inglese, ne parla tutto il mondo. Non ci vado matto, ma per i Duffer sì. E’ il film nel film. Due gemelli che non riescono a fare niente se non insieme. Frequentano solo scuole dove possono andare entrambi, se li vogliono separati vanno altrove. Progettano film fin da bambini. Ne girano uno che va direttamente in dvd. Non si scoraggiano. Scrivono questa Stranger things e vanno a proporla. Si sentono dire 15 volte no. “Se volete protagonisti bambini, non dovrebbe far paura” “Riscrivetela dal punto di vista dello sceriffo” “Bella, ma per quale pubblico?” “Mah” “No” “No” “No”. Adesso li pagano 100mila dollari a testa per tenere conferenze motivazionali di 50 minuti. In una hanno detto: “Chi ce la fa? Chi ama così tanto quel che fa da non riuscire a immaginare di fare altro”. E’ Rocky. E’ un deja vu. E la cosa più strana è che è la realtà. 

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(Leggo)

«...dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elìa si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna» 1Re 19,9.11-16.

 

Altro che visioni, miracoli ovunque o altro...delicatezza e profondità ci chiede i lSignore!

(Prego)

Dio è amore; chi rimane nell'amore,
rimane in Dio e Dio rimane in lui. (1Gv 4,16)

(Agisco)

Sensibilità nel rispettare la donna e nel contrastare ogni dipendenza (gioco, alcol, droga).

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La bellezza del matrimonio “per sempre”

 
 
 

“Un’alleanza davanti a Dio che esige fedeltà” (AL 123)

«La famiglia è la “cellula fondamentale della società” (Esort. ap. Evangelii gaudium, 66). Il matrimonio è realmente un progetto di costruzione della “cultura dell’incontro” (Enc. Fratelli tutti, 216). È per questo che alle famiglie spetta la sfida di gettare ponti tra le generazioni per trasmettere i valori che costruiscono l’umanità. C’è bisogno di una nuova creatività per esprimere nelle sfide attuali i valori che ci costituiscono come popolo nelle nostre società e nella Chiesa, Popolo di Dio. […] permettetemi di rivolgere una parola ai giovani che si preparano al matrimonio. Se prima della pandemia per i fidanzati era difficile progettare un futuro essendo arduo trovare un lavoro stabile, adesso l’incertezza lavorativa è ancora più grande. Perciò invito i fidanzati a non scoraggiarsi, ad avere il “coraggio creativo” che ebbe san Giuseppe, Così anche voi, quando si tratta di affrontare il cammino del matrimonio, pur avendo pochi mezzi, confidate sempre nella Provvidenza, perché “sono a volte proprio le difficoltà che tirano fuori da ciascuno di noi risorse che nemmeno pensavamo di avere” (Lett. ap. Patris corde, 5). Non esitate ad appoggiarvi alle vostre famiglie e alle vostre amicizie, alla comunità ecclesiale, alla parrocchia, per vivere la futura vita coniugale e familiare imparando da coloro che sono già passati per la strada che voi state iniziando a percorrere».

Queste significative parole sulla famiglia sono estratte dalla lettera scritta da Papa Francesco agli sposi e fidanzati il 26 dicembre 2021 in occasione dell’anno Famiglia Amoris laetitia. Anno che terminerà tra qualche settimana con il X incontro mondiale delle famiglie che si terrà a Roma in questo mese di giugno dal 22 al 26 giugno. In questa lettera il Papa, col tono di un padre, offre un incoraggiamento, un segno di vicinanza e un’occasione di meditazione sull’importanza di una pastorale familiare in uscita, sul rapporto genitori e figli, sul cammino dei fidanzati verso le nozze e sul significato del sacramento del matrimonio quale “cellula fondamentale della società” e reale progetto di costruzione della “cultura dell’incontro”, così urgente per superare le avversità e i contrasti che oscurano il nostro tempo.  Pertanto, a partire da questa lettera, il servizio diocesano per l’accoglienza dei fedeli separati dell’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie ha chiesto una testimonianza a una coppia di sposi Vito e Marina, impegnati da diversi anni nella pastorale famigliare dell’Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni nell’accompagnamento di futuri sposi, sulla bellezza del matrimonio “per sempre” in questo tempo storico complesso. Si offre di seguito ai lettori e alle lettrici la testimonianza dei coniugi Colaianni.

 ***

Un matrimonio tra due battezzati è prezioso, perché Gesù ha un posto speciale nella loro relazione. Gesù, infatti, ha elevato il matrimonio a sacramento, così come recita anche il can. 1055 § 2 CIC: «tra battezzati non può sussistere un valido contratto matrimoniale che non sia per ciò stesso sacramento». Inoltre, come ci ricorda Papa Francesco nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia: «L’unione che si cristallizza nella promessa matrimoniale per sempre è più che una formalità sociale o una tradizione, perché si radica nelle inclinazioni spontanee della persona umana; e, per i credenti, è un’alleanza davanti a Dio che esige fedeltà: “Il Signore è testimone fra te e la donna della tua giovinezza, che hai tradito, mentre era la tua compagna, la donna legata a te da un patto: […] nessuno tradisca la donna della sua giovinezza. Perché io detesto il ripudio” (Ml 2,14.15.16)» (AL 123).

Nell’affrontare il tema dell’indissolubilità del matrimonio in una coppia, ci sembra importante ricordare le due proprietà essenziali su cui si fonda il sacramento. La dottrina cristiana, infatti, insegna che le due proprietà essenziali del sacramento matrimoniale sono: l’Unità: essa comporta l’esclusività del vincolo, l’esclusione di qualsiasi forma di poligamia e poliandria; da essa, quindi, scaturisce l’obbligo della fedeltà coniugale. L’Indissolubilità: essa comporta che il vincolo coniugale perduri perpetuamente finché entrambi i coniugi sono in vita, senza possibilità che sia sciolto, tranne in tre specifici casi (separazione, scioglimento del vincolo e nullità di matrimonio). Nel momento del consenso, inoltre, i due sposi si impegnano liberamente e consapevolmente ad amarsi (cioè a volere e cercare il bene dell’altro) in modo esclusivo e ad essere aperti alla vita. Pertanto, possiamo comprendere con la sola ragione che il progetto matrimoniale è per sua natura indissolubile. Dopo questa breve, ma essenziale premessa giuridica per inquadrare il sacramento del matrimonio, vogliamo occuparci di seguito in questa nostra riflessione/testimonianza solo della bellezza del matrimonio “per sempre”, cioè indissolubile.

Innanzitutto ci presentiamo: siamo Vito e Marina, membri della commissione diocesana di Pastorale familiare dell’Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni e animatori nei corsi prematrimoniali parrocchiali. Inoltre, nella nostra vita professionale, Vito dipendente del Tribunale Ecclesiastico Regionale Pugliese, Marina avvocato, ci occupiamo quotidianamente di persone che purtroppo decidono di interrompere il loro coniugio con la separazione legale e/o la nullità matrimoniale.

Dai nostri incontri professionali avuti con le coppie separate ci siamo accorti che le motivazioni che inducono le persone a porre fine al matrimonio in modo definitivo sono diverse: incompatibilità caratteriali, immaturità o cause ancor più gravi come la violenza domestica. Purtroppo abbiamo spesso constatato che le coppie in crisi sono lasciate sole: molto probabilmente se ci fosse stato l’aiuto del parroco o di un esperto il loro matrimonio si sarebbe salvato. Nei nostri corsi prematrimoniali insistiamo molto sull’importanza del dialogo nella coppia: è sempre meglio una lite accesa che una vita coniugale fallita. Un coniugio fallito è una sconfitta per gli sposi (in psicologia, la separazione, viene definita un “lutto”) ed un trauma per i figli, soprattutto minori, se ci sono. Ci piace evidenziare negli incontri con i nubendi che “il matrimonio è il tempo in cui si mette a dimora in terra la giovane pianta”. Questa pianta ha già radici, perché ciascun coniuge porta il contributo della propria identità, della propria personalità, del proprio passato, della propria concezione dell’amore, del proprio vissuto personale e familiare, del proprio ambiente sociale, dei propri sogni e di tutto ciò che egli/ella è. La giovane pianta è l’incontro di due personalità unite in un solo progetto che diventano con il sacramento del matrimonio una sola carne. Crediamo che nessuno sposo/a il giorno delle nozze ha la certezza matematica che quella scelta non possa comportare problemi. Il sacramento del matrimonio è l’alleanza di una coppia con Dio: il Signore guiderà la giovane coppia nella vita e aiuterà loro ad affrontare tutti i deserti che la vita farà attraversare.

Tra noi, che non vogliamo definirci la cosiddetta famiglia del “Mulino Bianco”, ci sono stati e ci sono diversità di vedute o attriti, ma con la preghiera ed il dialogo riusciamo a superare.

Vito essendo una persona riflessiva che cerca di usare le parole più appropriate, soprattutto durante i confronti, difficilmente risponde nell’immediato a Marina. Lei poi non sempre evidenzia un errore di Vito per cui alcune volte, conoscendola, bisogna “tirarle” le parole di bocca; in altre occasioni (quelle più gravi), però, subito Marina dice cosa non va. Una volta esternato il suo malessere, Vito cerca prima di rielaborarlo tra sé e poi le chiede di sedersi per potersi confrontare.  È da dire, però, che per fortuna i nostri screzi, fino ad oggi, non sono durati più di un giorno. Sono innumerevoli le circostanze che ci permettono di rinnovare il “si” del nostro matrimonio: ogni volta che noi diciamo all’altro coniuge “Ti amo” rinsaldiamo la nostra alleanza. Ogni volta che diciamo al coniuge “Ti chiedo perdono” o “ti perdono”, rinforziamo il legame del nostro matrimonio.

Ogni volta che ci ritroviamo come marito e moglie riuniti nel suo nome dinanzi al Signore per offrire una difficoltà della nostra vita o per riconoscere un dono di Dio, rinforziamo la nostra alleanza con lui. Infatti, ciò che ci aiuta tanto ad andare d’accordo e che ci ha avvicinati fin dai primi tempi del nostro rapporto è la fede che cerchiamo di mantenere viva partecipando attivamente alla vita della nostra Comunità parrocchiale, riflettendo sulla Parola di Dio e pregando. L’appuntamento della Messa domenicale che viviamo come famiglia, il vivere esperienze di servizio e di condivisione ci aiutano a vivere cristianamente il nostro matrimonio e a educare nella fede cattolica nostra figlia Maria Elena. La fede è un dono di Dio, ma è compito di noi genitori trasmetterla ai figli con la parola e l’esempio. La testimonianza del nostro essere cristiani (sia pur piena di errori), il vivere insieme esperienze significative di servizio e aiutarla a compiere piccoli gesti di condivisione crediamo che potrà suscitare in lei il desiderio di avvicinarsi al Signore, di sentirsi parte della Comunità e di farsi prossimo. Siamo consapevoli di essere stati chiamati ad essere nel mondo segno tangibile dell’Amore fedele e costante di Dio per l’umanità, dell’Amore di Cristo per la sua Chiesa. Con tutti i nostri limiti sappiamo di essere “chiesa domestica.”

Bisogna aiutare i giovani a capire la bellezza del Matrimonio sacramento, a soffermarsi sulla presenza di Dio nella famiglia che si costituirà, è Lui che “santifica ogni cosa”. Sposarsi nel Signore è rispondere ad una vera vocazione, quella di essere Icona della Trinità, immagine di Dio Amore, di Dio Comunità (Cf. Gen 1,27). Concludiamo questa nostra piccola testimonianza con la speranza che possa in qualche modo aiutare il cammino delle nuove coppie, con l’augurio che la pastorale per le famiglie possa essere potenziata a tutti i livelli per accompagnare anche le coppie in difficoltà che, a volte, si sentono escluse dalla vita ecclesiale.

Vito e Marina Colaianni

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