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Senza telefono

Senza telefono
Una settimana di mutismo smartphone: piccolo esperimento sociale
1 minuti di lettura
 

Qualche giorno fa mi sono operato alle corde vocali. Nulla di grave ma mi hanno imposto di stare in silenzio per un po’. In particolare, si è raccomandato il professore, niente telefono. Infatti quando parliamo al telefono, ci sforziamo di più. E così sono finito involontariamente dentro un piccolo esperimento sociale: vivere senza telefono (una settimana).

 

Ci sono diverse storie radicali di gente che ha rinunciato totalmente alla tecnologia o ad essere connessi su Internet. Esperienze quasi mistiche, prossime all’eremitismo. Nel mio caso è stato diverso: potevo leggere le email, scrivere le chat, ma niente telefonate (e nessuna video riunione, di quelle che punteggiano le giornate lavorative di moltissime persone). Come è andata? Fatico ad ammetterlo ma è andata da dio. E quando mi sono accorto che stavo meglio senza essere continuamente interrotto da una telefonata e senza passare ore prigioniero di una video riunione, mi è tornato in mente il surreale dibattito che ci fu in Parlamento quando in Italia arrivò il telefono e molti parlamentari vi si opposero preferendogli il telegrafo.

 

La tesi di fondo era: chi vorrà davvero parlare in tempo reale con qualcun altro senza che resti qualcosa di scritto? Era una tesi sbagliata, il telefono è fondamentale. Ma da quando è diventato mobile e smart e ce lo portiamo sempre dietro, non è soltanto il resto del mondo ad essere sempre raggiungibile da noi, siamo anche noi ad essere sempre raggiungibili dal resto del mondo. In qualunque momento, in qualunque luogo, qualunque cosa stiamo facendo. In questa settimana senza telefono, è come se mi fossi ripreso la libertà di godere certi momenti. Di gestire le cose con i miei tempi. Non serve una convalescenza alle corde vocali per farlo, negli smartphone c’è una funzione, non disturbare, che consente solo ad un numero limitato di contatti di interrompervi. Gli altri, possono attendere in fila.

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Distogliere l'attenzione

 
Vanessa Incontrada a Napoli durante il concerto di Gigi D'Alessio quando il pubblico ha intonato "Sei bellissima"

Vanessa Incontrada a Napoli durante il concerto di Gigi D'Alessio quando il pubblico ha intonato "Sei bellissima"

Anche a me sembra bellissima Vanessa Incontrada, e non lo dico perché è “giusto”, “corretto”, perché è un “segnale educativo” così le ragazzine prima o dopo capiranno che non serve essere esangui e fisicamente inesistenti, fatte di vetro, per essere belle. No, lo dico perché mi sembra davvero stupenda, in quella foto a Napoli con le rose sul seno e i capelli sciolti sulle spalle. Assai più bella davvero di tante taglie 38-40 per un metro e ottanta di altezza che, quando le sfoglio sui giornali, mi fanno un po’ paura, un po’ tristezza, penso a quante privazioni, quante barrette che sanno di segatura, quanti diuretici e quanto tofu, che sofferenza.

Poi certo ci sono anche quelle che nascono con un metabolismo così, che non fanno nessuno sforzo e anzi, magari vorrebbero essere più tonde, avere più carne: ci sono magre di natura, non lo fanno apposta. Ma insomma, ecco, quanto sarebbe bello tornare a prima di tutto questo, a quando le donne erano come erano e gli uomini pure – solo che per loro vale ancora, vale sempre. Lo sguardo più feroce, in questo tribunale permanente che ti vuole somigliante ai modelli da sfilata, è delle donne sulle donne, tuttavia.

L’altro giorno ho conosciuto due cugine, ventenni magnifiche. Una più alta e più magra, una un poco più piccola e tonda. “La prima, quella alta, piace alle donne. La seconda, invece, agli uomini” mi ha sussurrato un loro amico. E però anche questo, che pure rivela qualcosa, resta un giogo: piacere a qualcun altro come metro. Si sente sempre dire, è un mantra motivazionale, che basta piacere a se stessi. A se stesse. Difficile. Il vero traguardo, credo, è fregarsene: distogliere l’attenzione da sé, fare cose, progetti, pensare agli altri.

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HERMANN HESSE

 
 
 

Il poeta alla ricerca della forza interiore salvifica dell’uomo

Hesse, scrittore e poeta che rappresenta una delle voci più importanti del ‘900 letterario europeo e Premio Nobel per la Letteratura nel 1946, compone le sue poesie negli anni 1895-1962.

Con le sue ineguagliabili doti di scrittore è riuscito ad interpretare tutte le sofferenze umane condannando fermamente la guerra tanto da essere inserito, sotto il regime nazista, nelle liste di proscrizione per i suoi riferimenti ai pogrom e per la sua avversione al nazionalismo e alle guerre. “La guerra esisterà ancora a lungo, probabilmente per sempre. Tuttavia il superamento della guerra, oggi come ieri, continuerà a essere la più nobile delle nostre mete.”

Da esistenzialista quale egli è non può non essere consapevole dell’immutabilità dei destini e delle vicende umane, ma nei suoi scritti ha sempre cercato di ristabilire un’armonia e una solidarietà che potesse riavvicinare tutti gli uomini in costante ricerca della comprensione della propria interiorità che aspira sempre e comunque ad una piena libertà.

“[…]mio il boschetto sacro del passato.

E non meno la celeste arcata del futuro

è la mia patria limpida:

spesso alata dalla nostalgia l’anima mia s’innalza

a scrutare il futuro di un’unanimità beata,

amore, trionfante sulla legge, amore da popolo a popolo.[…]”

(Versi tratti da Il poeta)

Da ogni suo scritto traspare una profonda sofferenza sospinta e sorretta dalla forza insita in ogni essere umano, dall’idea di una libertà volta al poter percorrere la propria strada godendo a pieno della vita.

“Ti abbiamo tagliato,

albero!

Come sei spoglio e bizzarro.

Cento volte hai patito,

finché tutto in te fu solo tenacia

e volontà!

Io sono come te. Non ho

rotto con la vita

incisa, tormentata

e ogni giorno mi sollevo dalle

sofferenze e alzo la fronte alla luce.”

(Versi tratti da Quercia potata)

Questa sua estrema sensibilità nasce dal suo essere totalmente in opposizione con l’ordine prestabilito di una società volta verso un progresso che tende ad asservire l’uomo alle sue ragioni prettamente materialistiche.

Ecco la delicata e poetica descrizione della sua intima diversità:

“Sono una stella del firmamento

che osserva il mondo, disprezza il mondo

e si consuma nel proprio ardore.

Io sono il mare di notte in tempesta

il mare urlante che accumula nuovi

peccati e agli antichi rende mercede.

Sono dal vostro mondo

esiliato di superbia educato, dalla superbia frodato,

io sono il re senza corona.

Son la passione senza parole

senza pietre del focolare, senz’arma nella guerra,

è la mia stessa forza che mi ammala.”

(Poesia, Sono una stella)

Con i suoi scritti Hesse ci insegna a seguire il suo esempio ovvero rievocare il passato doloroso per cercare attraverso un’autoanalisi di riflettere sulla realtà in cui viviamo aprendoci, così, alla possibilità di un’evoluzione interiore.

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I LUPI ALLA PORTA

 
 
 

La franchezza di Francesco

La diplomazia vaticana ha sempre avuto un ruolo attivo nelle varie crisi internazionali, a partire, in modo specifico, dalla prima guerra mondiale, allorquando Benedetto XV aveva cercato di portare i contendenti alla cessazione degli eventi bellici, attraverso i radiomessaggi e con quella celeberrima nota, datata 1°agosto 1917, che sui libri di storia è ricordata come “l’inutile strage”.

Dopo il pontificato di Pio XII, la cui posizione durante il secondo conflitto mondiale resta al vaglio continuo degli storici, Giovanni XXIII si impegnò costantemente a favore della pace, soprattutto in occasione della crisi cubana della Baia dei Porci. L’impegno per quella tensione internazionale, che fece tremare il mondo, indusse il Papa Buono a scrivere la Pacem in Terris, come monito e speranza, e a prodigarsi attivamente per la pace.

Anche gli altri sommi pontefici si sono espressi su quelle crisi regionali che hanno segnato gli ultimi decenni. Il pensiero va in particolare a Giovanni Paolo II che è intervenuto nella prima Guerra del Golfo e nelle guerre balcaniche. Francesco è l’ultimo di questa lista, ma non ultimo per impegno e prodigalità. Prima ancora della crisi ucraina ha parlato di una terza guerra mondiale a pezzi, rilevando tutte quelle particolari crisi belliche dimenticate dalla gran parte dei potenti della terra. Con la guerra in Ucraina la sua preoccupazione, e non solo la sua, è aumentata, e la possibilità di una terza guerra mondiale, nemmeno tanto sottaciuta dai protagonisti di questo conflitto, ha visto un maggior protagonismo da parte di Bergoglio che si è proposto più di una volta come mediatore di pace. D’altra parte il suo pontificato si basa anche sulla volontà di essere un operatore di pace. La schiettezza di Bergoglio si è rivelata con maggiore intensità nella recente intervista a Civiltà Cattolica, parole che ogni cristiano dovrebbe attendersi dal Vicario di Cristo e da chi guida le comunità cristiane. Ha criticato giustamente l’appoggio di Kirill alla guerra russa :«Ho avuto una conversazione di 40 minuti con il patriarca Kirill. Nella prima parte mi ha letto una dichiarazione in cui dava i motivi per giustificare la guerra. Quando ha finito, sono intervenuto e gli ho detto: “Fratello, noi non siamo chierici di Stato, siamo pastori del popolo”».

Il papa ha condannato l’azione militare del Cremlino, ma non ha voluto attribuire tutte le colpe a Putin. Non esistono buoni e cattivi, il lupo della favola di Cappuccetto Rosso pronto a sbranare l’innocente, ha detto riferendosi al presidente russo. Bergoglio questa volta ha analizzato la situazione con le lenti della neutralità, il che non vuol dire assolutamente il non schierarsi, correndo il rischio di essere annoverato tra gli ignavi, ma essere più che mai evangelico, in nome della verità, di quella verità che rende davvero liberi ed è un concetto che ha ribadito anche nel suo colloquio nella succitata intervista, quel “faccia a faccia” che non perde il rapporto con la realtà e con le persone. Papa Francesco critica anche la poca lungimiranza con la quale gli occidentali, e la NATO, si sono rapportati con la superpotenza russa :«il pericolo è che vediamo solo questo, che è mostruoso, e non vediamo l’intero dramma che si sta svolgendo dietro questa guerra, che è stata forse in qualche modo o provocata o non impedita».

Abbiamo bisogno di verità, della franchezza con la quale Francesco ha messo sul piatto i nodi nevralgici di un conflitto innescato dalla cenere della precedente guerra nel Donbas, alimentato dalla tensione delle parole, dagli spionaggi e dai proclami, esploso nella devastazione di morte e dei rifugiati per i quali la vita non sarà più come prima. Per gli ucraini, le vere vittime, il Sommo Pontefice ha avuto parole di profonda tenerezza, riconoscendone tutto l’eroismo. Il commento del Papa supera anche la mancanza di critica che tanti media stanno avendo nei confronti di una guerra che dimentica le sue ragioni più profonde, come ha dimostrato il caso Innaro e altre accuse mosse verso la RAI. Non si tratta di assolvere Putin, la sua resterà una scelta deplorevole, come le dichiarazioni di becero nazionalismo di Medvedev, ma vanno capite le cause e le reali motivazioni che hanno portato il mondo a un passo dal baratro. Quell’abbaiare alle porte del nemico ha seminato zizzania e ha caldeggiato profonde incomprensioni. Certo, anche le parole dei leaders europei non aiutano a risolvere pacificamente la disputa, ne tantomeno l’invio di armi che fanno dell’Ucraina l’agnello sacrificale da strizzare il più possibile per indebolire Mosca, o per credere di farlo. Draghi, in visita a Kiev, ha riferito che l’Ucraina deve poter avere la pace che vuole, alle condizioni precedenti al 24 febbraio, per intenderci. Un incitamento a continuare, un procrastinare la ripresa del dialogo tra le parti belligeranti. La verità delle parole di Francesco va oltre i paraocchi di una propaganda forzata e si affida a quella pericope evangelica che ci ricorda che “il nostro parlare sia si si, no no”.

La chiarezza prima di tutto.

Chiarezza finalmente, di un pastore che ha parlato in nome di Dio, non a favore di egoistiche rivendicazioni nazionaliste, chiese comprese. Parole chiare che non  dimenticano  il lupo cattivo pronto a divorare la povera Cappuccetto Rosso, ma che scardinano le nostre ottuse convinzioni e la nostra cocciuta consapevolezza di essere dalla parte del vero e del giusto. Un intervento, quello del Pontefice, che lascia aperto dunque il seguente quesito : e se i lupi fossero molti di più?


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E la luce fu (Paradiso XIV)

 
 
 

«Diteli se la luce onde s’infiora 
vostra sustanza, rimarrà con voi 
etternalmente sì com’ell’è ora»

(Paradiso XIV, vv.13-15)

Il canto quattordicesimo del Paradiso potrebbe essere indicato come il “canto della luce”, punto e a capo. Nondimeno, proverò a suggerire qualche ragione per questa definizione a bruciapelo.

La narrazione è suddivisa in due distinte sezioni e contiene l’ascesa dal cielo quarto, dei sapienti, al cielo quinto, degli spiriti combattenti per la fede (anche se a me piace più pensare ai “testimoni” della fede, ma questo è un altro discorso: ricordo solo che il Vangelo è scritto in greco e che “testimone” in greco si dice “martyros”…).

Nella prima parte Salomone chiarisce un dubbio di Dante circa la risurrezione dei corpi: essa non solo non spegnerà la luminosità delle anime, ma anzi la farà rifulgere come non mai; nella seconda parte, il poeta vede apparire, in un cielo divenuto rosso fuoco, due scie luminose di anime che incrociandosi perpendicolarmente mostrano al centro la figura di Cristo: Dante confessa ancora una volta di non essere in grado di descrivere ciò che vede e si affida all’immaginazione del devoto lettore.

Ma il tema dominante, anticipavo, rimane quello della luce. Esso ritorna insistentemente in tutto il suo frasario. Mi azzardo a rievocarlo senza attardarmi in riferimenti puntuali: luce, chiarezza, lume, vision, raggio, fiamma, candor, folgòr, lume, rischiari, sfavillar, affocato, roggio, lucore, robbi, splendor, biancheggia, lampeggiava, albor, balenar, scintillando forte.

L’elenco è incompleto – perché, per scelta, non specifico quante volte la stessa parola ritorni, passando, ad esempio, dal singolare al plurale o viceversa – ma ritengo che sia più che sufficiente a cogliere il brillio di questo canto, una lucentezza che è negli occhi di Dante.

Sì, perché per vedere la luce bisogna mantenere gli occhi aperti e, se Dante arde per li occhi belli (v.131) di Beatrice, vien da chiedersi chi o cosa possa accendere il nostro sguardo.

Per conto mio, continuo ostinatamente a ritenere che aprire una finestra sia il modo più semplice per lasciare che la luce entri: di sicuro, mi pare un’azione molto più intelligente che urlare la paura o l’ossessione del buio.

La luce rimane sempre con e per noi, solo che non si decida di chiuderla fuori.

Francesco Bacone: «La prima creatura di Dio fu la luce».

Michael Straßfeld: «La luce si dona liberamente, riempiendo tutto lo spazio disponibile. Non cerca nulla in cambio; non chiede se si è amici o nemici. Si dà di per sé e non si risparmia mai».

Leonard Cohen: «C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce».

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(Leggo )

«Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi» Mt 7,1-5.

 

Il solo giudizio severo che siamo abilitati, o piuttosto che abbiamo il dovere di formulare, non deve vertere che su noi stessi. Oh, se potessimo giudicare gli altri con la stessa clemenza che concediamo a noi stessi, il paradiso sarebbe già di questo mondo!

(Prego)

Nell’oppressione vieni in nostro aiuto,
perché vana è la salvezza dell’uomo.

(Agisco)

Che io possa giudicare i segni dei tempi, che possa essere profetico e non dispensatore di calunnie e maldicenze.

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L’archivio dei sogni spezzati

Di

 Monica Fornelli

 -

di Elizabeth Buchan

Nina e Lottie, le due protagoniste del romanzo, sono una lo specchio dell’altra.

Condividono le stesse sensazioni riguardo ad un passato fatto di solitudine estrema col tempo interiorizzata e resa imprescindibile nel loro vivere quotidiano.

A volte il non avere “radici” non coincide con l’essere soli al mondo, ma questa sensazione trova appiglio e nutrimento nel non riuscire a realizzare il proprio sé.

Nina con il suo lavoro ha cercato di sfuggire da una vita piatta di donna votata ad essere moglie e madre per trovare un posto nel mondo che la facesse sentire viva attraverso momenti intriganti, coinvolgenti e purtroppo anche pericolosi.

Lottie, a sua volta, con un colpo di testa cambia lavoro, città e si sposa per regalare alla bimba Lottie ormai donna quel senso di appartenenza che la facesse sentire al riparo da altri abbandoni.

Entrambe, inoltre, sono anche legate a doppio nodo dall’aver trovato un amore vero, profondo che ha saputo riunire i pezzi della loro anima ferita lenendola come unguento miracoloso.

Il flusso temporale tra le loro vite palleggia incontrastato tra gli anni ‘70 quando le tensioni politiche laceravano l’Italia e il tempo moderno in cui Lottie sovrintendente presso l’Archivio Espatriati si ritrova suo malgrado invischiata in situazioni più grandi di lei nel cercare di scoprire la verità sulla morte di una donna inglese, per l’appunto Nina Lawrence.

Accanto ad un attento e a volte premuroso indugiare nello scandagliare i momenti di malinconia e di tristezza delle due donne si svelano nel sottofondo della loro vita manovre politiche sottaciute e nascoste alla realtà in cui l’11 marzo 1978, dopo una lunga crisi di governo durata quasi due mesi, Giulio Andreotti forma il suo quarto esecutivo monocolore Dc sostenuto anche da comunisti, socialisti, socialdemocratici e repubblicani. Il 16 marzo, le due Camere vengono convocate per discutere e votare la fiducia. Quella mattina in via Fani, a Roma, un commando delle Brigate rosse rapisce Aldo Moro – presidente della Dc e principale sostenitore dell’intesa. Tempo di intrighi politici che si riflettono nel quotidiano di Lottie.

Tutto questo mentre ci si abbandona al fascino indiscutibile e senza tempo di Roma e nel contempo ci si approccia all’arte assaporando la magica rappresentazione di miniature antiche.

Un viaggio nella bellezza a tutto tondo partendo da quella esteriore dei palazzi, della natura, dell’arte a quella interiore, unica ed inimitabile appartenente ad ogni persona. Libro e scrittura straordinari.


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L’archivio dei sogni spezzati

Di

 Monica Fornelli

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di Elizabeth Buchan

Nina e Lottie, le due protagoniste del romanzo, sono una lo specchio dell’altra.

Condividono le stesse sensazioni riguardo ad un passato fatto di solitudine estrema col tempo interiorizzata e resa imprescindibile nel loro vivere quotidiano.

A volte il non avere “radici” non coincide con l’essere soli al mondo, ma questa sensazione trova appiglio e nutrimento nel non riuscire a realizzare il proprio sé.

Nina con il suo lavoro ha cercato di sfuggire da una vita piatta di donna votata ad essere moglie e madre per trovare un posto nel mondo che la facesse sentire viva attraverso momenti intriganti, coinvolgenti e purtroppo anche pericolosi.

Lottie, a sua volta, con un colpo di testa cambia lavoro, città e si sposa per regalare alla bimba Lottie ormai donna quel senso di appartenenza che la facesse sentire al riparo da altri abbandoni.

Entrambe, inoltre, sono anche legate a doppio nodo dall’aver trovato un amore vero, profondo che ha saputo riunire i pezzi della loro anima ferita lenendola come unguento miracoloso.

Il flusso temporale tra le loro vite palleggia incontrastato tra gli anni ‘70 quando le tensioni politiche laceravano l’Italia e il tempo moderno in cui Lottie sovrintendente presso l’Archivio Espatriati si ritrova suo malgrado invischiata in situazioni più grandi di lei nel cercare di scoprire la verità sulla morte di una donna inglese, per l’appunto Nina Lawrence.

Accanto ad un attento e a volte premuroso indugiare nello scandagliare i momenti di malinconia e di tristezza delle due donne si svelano nel sottofondo della loro vita manovre politiche sottaciute e nascoste alla realtà in cui l’11 marzo 1978, dopo una lunga crisi di governo durata quasi due mesi, Giulio Andreotti forma il suo quarto esecutivo monocolore Dc sostenuto anche da comunisti, socialisti, socialdemocratici e repubblicani. Il 16 marzo, le due Camere vengono convocate per discutere e votare la fiducia. Quella mattina in via Fani, a Roma, un commando delle Brigate rosse rapisce Aldo Moro – presidente della Dc e principale sostenitore dell’intesa. Tempo di intrighi politici che si riflettono nel quotidiano di Lottie.

Tutto questo mentre ci si abbandona al fascino indiscutibile e senza tempo di Roma e nel contempo ci si approccia all’arte assaporando la magica rappresentazione di miniature antiche.

Un viaggio nella bellezza a tutto tondo partendo da quella esteriore dei palazzi, della natura, dell’arte a quella interiore, unica ed inimitabile appartenente ad ogni persona. Libro e scrittura straordinari.


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Mendicanti di like

Di

 Lettere al Direttore

 -

inVisibili ad ogni costo?

I ragazzi di oggi ci chiamano Boomers: noi, nati a ridosso degli anni  ‘70, che abbiamo effettuato l’iscrizione ai social media a trenta, trentacinque anni suonati. Forse siamo davvero vecchi, sebbene non apparteniamo propriamente allo zoccolo duro che ha bandito i social dalla propria esistenza (ma li stimiamo assai) … Siamo piuttosto tra coloro che si limitano a scorrere la home e che, ogni tanto, provano timidamente a postare qualche fotografia: magari un panorama, uno scorcio di “tratturo antico”, un angolo di mare e cielo.

Non abbiamo però compiuto il grande salto, ovvero pubblicare, con cadenza fissa, contenuti interessanti (o anche no) intelligenti (o anche no) ‘edibili’ e via dicendo. Ma d’accordo: passi pure il selfie del sabato con amici, pizza, birretta e allegria, oppure quello in posa (maquillage impeccabile appreso dai tutorials) con gli sposi, dentro una romantica cornice di palloncini.

Però, permetteteci, tra il ‘grande salto’ e il “triplo avvitamento” che impone al cervello di babbo, mamma, zio, nonno (e ludotecario, catechista, allenatore, animatore estivo) di dar i bambini in pasto ai social, c’è un abisso.

Deve essere una recondita, impellente necessità dell’inconscio quella che spinge un uomo o una donna adulti a fare del proprio figlio (nipotino, cuginetto, figlioccio, piccolo allievo) ‘carne da like‘.

Cosa sottenda questa ricerca compulsiva di visibilità ad ogni costo (compreso il rischio, tutt’altro che remoto, che la creatura indifesa sbattuta perennemente in bacheca finisca in una rete di criminali) è già da tempo materia di studio per gli psichiatri: per gli influencer più noti, è semplicemente questione di “mercato”, per la gente comune, portata ad imitare i suddetti, si tratta di dipendenza emotiva dal consenso altrui. Consenso che, nella società digitale, si manifesta principalmente attraverso la collezione di likes, sinonimo di apprezzamento e fonte di gratificazione da dopamina.

È dunque tempo di riflettere. Meglio se velocemente. E, se si ha qualche soldo da parte, anche di andare in terapia.

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