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natodallatempesta0 più di un mese fa

 

Mi sono sempre piaciuti i racconti e le storie, per questo, forse, scrivo.
Anche nella pittura o nella scultura, si raccontano storie, è un modo per entrare in mondi sconosciuti. Le storie sono viaggi.

 

Louis Braille
Insegnante, Francia, 1809 – 1852
Da piccolissimo passava ore a osservare il papà che dava forma al cuoio. Ascoltava i rumori, seguiva l’ago robusto e il filo che legavano insieme stoffa, pelle conciata e paglia. Il risultato era ogni volta straordinario. E che gioia quando si andava a consegnare la sella finita al contadino o al mugnaio: spesso il padre portava con sé il piccolo Louis che salutava tutti curioso e fiero. Qualcosa, o tutto, cambiò molto presto. Aveva tre anni Louis quando, giocando con un arnese sottratto dal banco di lavoro paterno, si infortunò all’occhio sinistro. L’infezione che ne scaturì gli portò via dapprima l’occhio e, nel giro di qualche tempo, la perdita della vista fu totale. A dieci anni Louis entra all’Istituto per l’educazione dei giovani ciechi di Parigi. Ai ragazzi si insegna a leggere attraverso le dita con caratteri stampati messi in rilievo grazie a un filo di rame, ma la scrittura è preclusa; imparano lavori manuali, come impagliare sedie, e la domenica fanno una passeggiata, legati l’uno all’altro con una corda. Louis studia con impegno e a vent’anni è insegnante in quello stesso istituto. Proprio con gli studenti affina la grande invenzione della sua adolescenza: appena quindicenne, infatti, aveva ideato il codice alfabetico di scrittura e lettura tattile, formato dalla combinazione di sei punti in rilievo. Erano realizzati con un punteruolo e disposti, attraverso una
griglia, su due colonne. Si scrive da destra a sinistra e si legge, voltando
pagina, da sinistra a destra. A ispirarlo era stato Charles Barbier de la Serre, ufficiale d’artiglieria, inventore della “scrittura notturna”, un sistema adatto a trasmettere informazioni ai soldati in assenza di luce. Louis Braille è stato per i ciechi ciò che Gutenberg, l’inventore della stampa, è stato per l’umanità: ma morì senza saperlo.
Da: Vite straordinarie. Storie di donne e uomini che hanno fatto la differenza.

 

Oggi la vita ci morde l’anima e ci toglie fiducia e speranza a volte la vita stessa, lasciandoci sfiduciati e impauriti, senza più il desiderio di lottare per il futuro, si vive è basta aspettando l’inevitabile. Ho rischiato di perder la luce della vita quando ci vedevo bene e tutto era chiaro, così chiaro che tutto era diventato uguale, senza significato, oggi, che rischio di vivere nel buio, vedo le differenze e il valore dell’insignificante.

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natodallatempesta0 più di un mese fa

 

Bellezza, resistenza, tenacia e coraggio, queste le virtù di una piccola e candita pianta. Una piccola specie vegetale abituata a sopportare sbalzi termici e condizioni ambientali ostili, oltre ogni immaginazione. È lei, la stella alpina.
La conosciamo anche con il nome di edelweiss o zampa di leone.

 

Simbolo di resilienza.

 


Sulle Alpi si racconta che, tanto tempo fa, una montagna tanto triste piangeva lacrime di solitudine soffrendo talmente tanto che nessun fiore intorno a lei riusciva a consolarla.
 Fu così che, durante una notte, le stelle giocando tra loro si accorsero di questa montagna. Una stella allora scese giù dal cielo per posarsi tra le rocce gelide e consolare la triste montagna.
Era freddo, la stella tremava ma la montagna triste non rimase indifferente di fronte a questo gesto e così l'avvolse in un manto bianco donandole radici profonde per legarla per sempre a sé. All'alba nacque la prima stella alpina.

 

Avevo bisogno di cambiare prospettiva e mondo, e perché no, identificarmi con qualcosa di meno problematico e distruttivo dell’essere umano.

 

Non sono un poeta, ma sentirmi come un poeta, a volte mi da fiducia nelle alternanze (per un’amica).

 

Piccola stella alpina,
sei coraggiosa e non temi
di crescere, lì, dove nulla riposa.
Sembri fragile vestina di bianco,
ma resisti al vento e al tocco gelido
del più austero inverno.
E non ti spaventa, neanche,
la solitudine di una cima rocciosa,
sai che dall’alta vetta di una montagna,
timida vedi le stelle,
di mille notti, compagne fedeli e sincere.
Piccola stella alpina,
insegnaci,
ad esser puri e forti,
in questo mondo a volte ostile e freddo,
come il più rigido inverno.

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natodallatempesta0 più di un mese fa

 

I pensieri che dedico a fatti esterni alla mia quotidianità, come avete avuto modo di osservare (per chi mi legge), sono sporadici, a volte, però, non si può restare indifferenti e nel nostro piccolo un’opinione ce la creiamo, opinione pronta all’occorrenza per essere condivisa.
 

Una notizia di questi giorni mi ha, particolarmente, colpito.
Due tredicenni (di buona famiglia) che aggrediscono con una forbice una coetanea, a colpirmi l’età e le modalità d’aggressione, degne di un piccolo romanzo criminale, per l’età che hanno per lo meno.

 

Da poco in tv viene trasmessa una serie, alquanto bella, realistica, crudelmente realistica e di base profondamente decadente.
Mare fuori.
Ho visto le puntate e la realtà descritta è, imbarazzante.

 

Non capisco come possa un giovanissimo o una giovanissima acquisire queste caratteristiche criminali?
O meglio, so come può accadere, ma l’idea mi terrorizza e mi lascia incredulo, perché è una sola la spiegazione possibile, la totale assenza di adulti a indicare un esempio positivo. È possibile?

 

È possibile, che un bambino, nato nella nostra società, non in medio oriente o in Africa, ma nel nostro paese, possa arrivare all’adolescenza con in testa l’idea che accoltellare è normale come mangiare un kebab?
In un post precedente, ho brutalmente descritto, come crescono certi bambini e cosa subiscono, quindi, è possibile.
Ciò che mi chiedo è: Dov‘è la famiglia? Dov’è la scuola? Dove sono le istituzioni?
Ma che cazzo me lo domando a fare?

 

Stavo per cancellare quello che avete appena scritto, perché riconosco di essere ripetitivo, ma non è mai stata contemplata la censura nel mio mondo.
Che dite forse è meglio ascoltare un pò di musica cosi i pensieri si calmano e l’anima si quieta.

 

 

Intervista rilasciata da Roberto Vecchioni al sole 24 ore:
«Gli insegnanti italiani sono i più bravi del mondo. Certo, se venissero a mancare i genitori a scuola ci sarebbe meno sfacelo, secondo me», lo ha detto tra l'ilarità generale Roberto Vecchioni, parlando alla platea dei delegati intervenuti al secondo congresso della Uil scuola, in corso in questi giorni a Roma. «Bisogna credere - ha detto in un altro passaggio il cantautore - non si può vivere assolutamente atei, bisogna credere nella forza della propria umanità. Pasternak diceva: “questo mondo non è l'anticamera di una sala (che è il Paradiso), questo mondo è già un salone pieno di luci”. Già qui siamo nell'eternità, già qui dobbiamo fare il possibile per sentirci nobili, umani; poi se c'è Dio o non c'è, poco importa; abbiamo il dovere di essere uomini che fanno gesti grandi, belli, qui ed ora, in questo mondo. I valori - ha proseguito - sembrano una parola retorica, antica, invece sono qualcosa di interminabile, che non finisce mai: sono il bello, il vero e il bene, a quello dobbiamo tendere. La sensibilità al bello purtroppo è spesso deturpata, oggi, da qualcosa di facile. E la vita spesso non permette di avere giovani all'altezza del lavoro che vorrebbero avere: serve la cultura. Quando si insegna per 5 anni la grammatica e la letteratura greca, si insegna che ogni cosa ha sterminate espressioni. Quando escono dalla bellissima cerimonia che è al scuola, i ragazzi hanno una corazza solida e sanno come rispondere e trovare le differenze: la vita è fatta di una infinità di sfumature. La cultura è causa-effetto, sensibilità verso l'altro, inglobare un mondo in un pensiero, saperlo concepire, è pazienza, capire gli altri anche quando sbagliano o potrebbero dire altro. La cultura ci viene dalla scuola, non da altro».

 

Che dire? Nella quotidianità, nella nostra intimità, la realtà è quella che è, forse, più male che bene, ma in mondi come questo, in mondi dove si può essere liberi di scrivere, di dipingere, di creare musica, possiamo essere migliori del mondo che ci ospita.

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natodallatempesta0 più di un mese fa

 

Ieri ho litigato con la mia dolce metà, non tanto dolce in quell’occasione. :-)
Strano - ma non troppo - per le solite questioni o meglio una delle solite questioni.
Non so se capita anche a voi. Ma a me capita di litigare per motivi che si ripetono, periodicamente, nel tempo.
Sembra a volte di scivolare in un circolo vizioso in cui l’intelligenza si prende una vacanza.
Non ci siamo rivolti la parola per ore, praticamente, fino alla mattina seguente, cioè stamattina, che il linea di massima è, forse, il modo migliore per raffreddare gli animi, i silenzi calmano.
Al risveglio ci siamo comportanti come se nulla fosse successo, amorevolmente come sempre.
Questi litigi sono i più strani e in un certo senso i più insopportabili, perché potrebbero essere evitati, visto che sono questioni che conosciamo entrambi bene.
Non è neanche l’argomento in sé a scatenare l’irritazione, quando invece il sentirlo ancora una volta.
Per lo meno a me mi irrita questo, sentire ancora quelle parole, sostenere ancora quella posizione.

 

Ma di fatto se le posizioni non coincidono è inevitabile ed è solo questione di tempo, primo o poi il conflitto s’infuoca.
Mi riprometto, sempre, di non affrontare più l’argomento, ma puntualmente torna e mi sento stupido nel non riuscire a superare l’ostacolo. Anche quando si cerca di venirsi incontro, il calore, il tepore che di solito ci scalda e ci rende comprensivi l’uno verso l’altra, un pò si raffredda.
Siamo creature strana. In un commento, in un blog amico, ho scritto che non siamo, poi, così civilizzati.
Gli impulsi riescono ancora ad annebbiarci, non ci facciamo fisicamente del male, come accadde in molte altre famiglie, il peso delle parole dette e ricevute, io, però, lo sento, ed un peso che mi lascia piccole ferite.
Comprendo perché poi si passa parte della vita a provare che si è ancora pieni d'amore o cercare nei suoi gesti quello stesso amore. Perché un pò si resta male, ci si sente male tanto da mettersi in dubbio, mettere in dubbio la forza dell’amore che ci unisce.
Momento malinconico. :-)
Quel che voglio esprimere con questo pensiero è un concetto.
Ritengo il litigo, nella vita di una coppia, un momento per crescere e mettersi a nudo, un modo quindi per far conoscere parti di sé che non sempre vengono fuori. A volte, però, è difficile crescere.

 

In un mondo come questo poi.

 

A tal proposito voglio aprire brevemente una piccola parentesi e dedicare un pensiero, un piccolo pensiero al dramma che si è consumato a largo di Crotone.
63 vittime (non definitive). Rincuora (è ironico) vedere come, l’opinione pubblica, sia politica che popolare, reagisce a questa tragedia. Chiusa parentesi.

 

“Per fare una discordia, vi bisogna due. A perseverare in concordia, basta che uno de' due sia savio.”
Leon Battista Alberti

 

Una buona giornata a tutti.

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natodallatempesta0 più di un mese fa

 

La riflessione che intendo condividere, oggi, potrebbe sembrare strana, ma considerando che tutto è ispirazione e tutto può esser fonte per costruire un racconto, anche questo argomento potrebbe offrire qualcosa o donare qualcosa.

 

Lo spinta non è, stavolta, legata al mio passato, ma agli utenti di Libero, ad una categoria in particolare. Non me ne vogliano le donne, ma ad un particolare gruppo di utenti femminili.
Che per varie ragioni, molte, a me purtroppo chiare, altre, invece, più ambigue, si mostrano alla comunità mettendo in risalto una particolare parte del corpo.

 

Il seno! Grande o piccolo, in posa o intravisto, coperto o scoperto, semplicemente, seni. Ne ho colto alcuni fra i tanti e fra tutti i meno spudorati, i più timidi.

 

:-) Eh no!!! Ovviamente, non li mostro per rispetto, non spetta a me esibirli.

 

Non farò una critica alle sopracitate utenti, nonostante non condivida l’improprio utilizzato di questa, bellissima, parte anatomica come identificato o carta d’identità.
Mostrerò, invece, come l’arte ha saputo descrivere il seno, trasformandone il significato da mero oggetto di seduzione a simbolo di vita e riscatto verso una libertà che lontana è, ancora, dall’essere raggiunta ed emancipata.

 

Giovanni Lanfranco, Sant’Agata visitata da San Pietro in carcere – 1613 – Parma Galleria nazionale

 

L’arte e in generale la storia, ha sempre rappresentano il seno nelle sue virtù più riconoscibili, virtù celebrate dall’uomo e poco, forse, dalla donna. Queste virtù, tanto sospirate, elogiavano a volte l’erotismo del seno, altre la sua materna simbologia.

 

Guido Cagnacci – Morte Di Cleopatra – 1660/1663

 

Erotismo e maternità, ecco, cosa è stato il seno, ecco, come è stato rappresentato per secoli. In entrambi i casi, sottoposto a censura oppure esibito senza riguardi e pudore, secondo le necessità e le più puerili esigenze.

 

Andrea Solario - La Madonna dal cuscino verde” - 1507 - Museo del Louvre

 

Al di là delle concezioni personali o sociali, la cosa più bella che una donna può arrivare a sentire, a percepire, è che il seno sia qualcosa che appartiene a lei prima che agli altri, più e oltre il suo stesso simbolismo.

 

Artemisia Gentileschi - Lucrezia - 1593-1654 - Getty Museum (Los Angeles)

 

Per l’artista l’anatomia umana, è energia, è, appunto, simbolismo, ed in ogni opera, il corpo è, un mezzo per definire un’idea, costruire un pensiero che è, sempre, al servizio di un atto d’amore, verso la libertà, verso la comprensione e verso l’emancipazione, sia essa mentale o sociale.

 

Marina Abramovic - performance “Rhytm 0” - Napoli nel 1974

 

Questa ultima immagine è emblematica e significativa per comprendere come, oggi, viene concepito il corpo e come l’arte contemporanea lo rappresenti. Credo valga la pena spendere due parole in più su questa ultima immagine. La foto ritrae una performance svolta in una stanza della Galleria Studio Morra di Napoli. 72 oggetti vennero disposti su un tavolo insieme ad delle istruzioni per i partecipanti della performance, queste le indicazioni:
1) Ci sono 72 oggetti sul tavolo che possono essere usati su di me nel modo in cui desiderate
2) Io sono l’oggetto
3) Mi assumo completamente la responsabilità di quello che faccio
4) Durata: 6 ore (dalle 20:00 alle 2:00)
All’inizio non successe nulla, poi, gli oggetti iniziarono piano, piano ad esser impugnati, prima una piuma, poi una rosa coperta di spine, poi una catena, una lama, ed infine una pistola carica. Nonostante la tensione e la paura, l’artista rimase immobile per tutta la durata dell’evento, il cui scopo era mettere a nudo la relazione tra abbandono e controllo. L’arte viene messa alla prova, per descrivere un confine e mostrare la natura del nostro rispetto per il corpo umano. Fin dove può arrivare un essere umano a cui è concesso il potere di agire indiscriminatamente?

 

Durante gli anni di Accademia, ho ritratto, per mero esercizio il corpo umano (nudo), sia maschile che femminili. In quegli anni, hanno posato, per me e i miei collegi, ragazze e donne, che senza volgarità, hanno mostrato la bellezza del loro corpo per quella che è, non un oggetto da cui attingere bramosia, lussuria o violenza, ma un riflesso di quello che è la nostra intimità e libertà.

 

So che le buone intenzione hanno, sempre, un contraltare nella realtà, che molte e molti leggeranno retorica in questo pensiero. E lo è, retorico, come è retorica l’arte e la poesia. E come allo stesso modo è retorico il male e la violenza.
La comunicazione ha sempre avuto insito nel suo retaggio, l’arte della persuasione.
L’intero mondo si fonda su questo concetto, su questo subdolo comportamento. Regni, imperi e, poi, democrazie, hanno costruito il loro potere e il loro seguito sulla capacità, più o meno forzata, di persuadere un individuo o un popolo a seguirlo o sottomettersi. Questo è il confine tra bellezza e mostruosità, lo stesso confine che separa il seno dall’essere un simbolo di erotismo e maternità o un simbolo di appartenenza e libertà per ogni donna e uomo.

 

Cosa si rispetta?
Cosa vediamo quando davanti ai nostri occhi si materializza un seno?
So cosa potrebbe aver pensare Freud, quale pulsione lui assocerebbe prima al bambino e poi all’adulto. Uno spettro di percezioni che radicalizzano l’ossessione, trasformando la sessualità in un lotta per la sopravvivenza di un’interiorità in bilico tra desiderio e rassegnazione.

 

Lo stesso sangue, lo stesso respiro, lo stesso corpo, cioè appartenenza, l’appartenenza definita dalla diversità che ogni singolo pensiero, ogni singolo cuore, ogni singola anima ha nel suo essere unica e libera, nel loro essere unici e liberi.

 

Cosa si deve rispettare quando si ha davanti un seno?
Non la donna, né l’uomo, ma entrambi, solo quando un uomo vedrà nel corpo di una donna sé stesso e una donna vedrà nel corpo di un uomo sé stessa, si avrà rispetto e libertà.

 

Posso comprendere le vostre perplessità, la mia logica non è mai stata allineata e forse mai, totalmente, comprensibile o sensata.
L’uomo e la donna, raggiornano per luoghi comuni, per convenzione e precetti, lasciandosi da questi plasmare e indottrinare, la libertà di pensiero è una conquista ardua e prescinde ogni subornazione.

 

La mia compagna mi accusa (mi affido all’idea che sia amichevole questa accusa) di esser, sempre, sopra le righe, di elevare (senza mai riuscirci) troppo i miei discorsi e perdermi al loro interno, e con loro perdere la concretezza del loro impatto, senza, non si ha un fine, non si ha scopo.
Ho passato metà della mia vita in silenzio e l’altra metà cercando, disperatamente, di farmi capire, ed ho così trasformato la mia comunicazione che essa è diventata una linea infinita che non riesce a trovare sbocco.
Scrivo i miei pensieri e scrivendoli a volte sembra di naufragare in un oceano di parole.
Ma anche questo è parte di me, questo sono, un uomo che cerca di distillare i pensieri, un uomo che parte della bellezza del seno per esaltare la libertà dell’essere umano.
Perché questo dev’essere il compito dell’arte, della poesia e della filosofia, indicare la strada, anche se poi il mondo non la segue o non la vuole seguire.

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natodallatempesta0 più di un mese fa

 

 

Quando si racconta, è inevitabile, declinare il passato. Di fatto in, quasi, tutti i miei post, ho raccontato episodi del mio passato.
La natura del blogger è definita della storia e di conseguenza dal suo contenuto.
Nel mio blog è spiccata la natura biografica, anche se ancora, oggi, mi chiede e domando a chi possa interessare il mio passato?

 

Ieri è morto Maurizio Costanzo, con tutto il rispetto possibile, la notizia (spero i fan non me ne vogliano male) non mi ha suscitato alcun che, uno dei tanti necrologi che la tv celebra, negli ultimi anni ce n’è sono stati parecchi.
Ma se torno indietro e lascio volare i pensieri a 20 anni fa, devo riconoscere che, il Maurizio Costanzo Show, è stato un programma che mi ha tenuto tanta compagnia, soprattutto in quelle notti di studio e ripasso. Un sottofondo a volte allegro, a volte triste, a volte irritante. La Tv, come la musica, è stata un sottofondo rilevante nella mia vita, soprattutto adolescenziale e per buoni motivi.

 

Come ho scritto in passato, raccontando della mia infanzia e adolescenza, i miei genitori lavoravano l’intera giornata ed io e mia sorella eravamo, sempre, soli in casa, la Tv è stata di conseguenza, l’unica vera distrazione, di certo non la più sana, ma le alternative erano poche e a volte pericolose.
Raccontarle, oggi, è come leggere un libro, c’è distacco, un distacco emotivo forzato, che ha lo scopo di allontanare le emozioni, la tristezza e la rabbia.
Perché, sì, se ci penso, un pò di rabbia, arde nel cuore, per quel che banalmente si viveva come normalità e quotidianità, una quotidianità che era tutto tranne che normale.
Ad esempio; quando tornavo a casa con, mano nella mano, la mia sorellina, dovevo stare attendo ad evitare alcune zone, perché c’erano dei ragazzi a cui non dovevo dare confidenza, l’ordine dei miei genitori era chiaro e severamente punito se disubbidito. Dopo, ho scoperto il motivo di questa preoccupazione e questa severità, motivo che, sicuramente, potete immaginare. I ragazzi erano piccoli spacciatori legati alla cosche mafiose.
Mi fa tristezza pensare che, nonostante siano passati 30 anni, la situazione sembra non essere, poi, tanto cambiata.
Per questo motivo, la maggior parte delle volte i miei mi ordinavano di restare a casa e non uscire dopo la scuola e a casa l’unica distrazione era la Tv.
I cartoni animato sono stati un vero e proprio laboratorio per me. Potrei affermare, quasi con certezza che è stato grazie a loro che ho scoperto di avere il dono del disegno. Beh, loro e i fumetti, quei pochi fumetti che ho avuto la fortuna di poter comprare.
Li ho disegnati, quasi, tutti: Candy, Pollon, Lady Oscar, Licia, Lupin, L’uomo tigre, Spank, i Puffi, La stella della Senna, Mimi, Gigi, Creamy, Pinocchio, I Flintstones, Kimba, Mazinga, Jeeg Robot, La signora Minù, Lamu, Sampei, ecc. ecc.

 

 

La felicità nella vita è centellinata e in molti casi distillata da una realtà mutevole. Possiamo paragonarci a contadini, che raccolgono ricordi sotto forma d’esperienza. E questo incessante lavoro è logorante, la schiena si piega e giorno dopo giorno la vita si consuma, le ossa, i muscoli e l’anima si erode, è inevitabile. Ogni pizzico di felicità ci costa energia, tanta energia e vita, tanta vita, è il costo del vivere. Ma ogni costo, ha anche un ricavo, un bene che ci viene restituito e può disegnare, nel mio caso letteralmente, ponti, strade e porte.
Il passato per me è, sempre, stato, nel bene e nel male, importante e ricordarlo è, fondamentale per tracciare il futuro e distillare piccole gocce di felicità.

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natodallatempesta0 più di un mese fa

 

Inizio questo pensiero con una considerazione che è, già, stata sollevata da un blog amico, qualche giorno fa.
Oggi sono stato all’ASL e poi in ospedale per ritirare un referto.
Se non fosse per questi fogliettini:

 

 

Che ricordano quel che è stato, potrei pensare che nulla sia mai successo. Che quei tre anni non siano mai esistiti. Ogni tanto qualcuno indossa la mascherina, ma, quasi, passa inosservato.
Non so se sia un bene o un male, ma, personalmente, il distanziamento mi manca. Non rimpiango quel che abbiamo passato, ma a volte ho la sensazione che la memoria salti qualche pagina.

 

Una piccola osservazione, non penso l’unica, che apro e chiudo.

 

Avrei tanto da scrivere, su molti argomenti, vicini e lontani, ma mi incazzerei soltanto.

 

C’è una stupenda scenetta con protagonista Massimo Troisi.

 

 

Per chi non crede, so che è difficile immaginarla, e non chiedo di fare sforzi in tal senso, per chi al contrario ha fede o crede in qualcosa, qualunque cosa, può, con o senza sforzo, immaginare questa stupenda gag.

 

E magari mettersi, ironicamente, nei panni di Massimo e dialogare con la presunta entità che così tanto sarcasticamente e spiritosamente ci mette alla prova, per non dire che ci sta, proprio, a rompere il cazzo. :-)

 

Dai, siamo sinceri, a chi non è passata una volta nella vita, in testa, la domanda:
Ma perché proprio cu’mmè/proprio a me?

 

Il testo è geniale.
E credo sia uno specchio di quel che pensiamo e critichiamo.
Ascoltarlo è sublime, anche leggerlo, però, ha il suo fascino, magari, non per tutti, il dialetto napoletano non è semplicissimo da leggere.
Alcune parti sono esilaranti.

 

[…]
Si ma tu ‘o ssaje quanto in fondo ti stimo! Vengo a messa tutte le domeniche, ogni domenica sto in chiesa… e vabbè aggio ‘juto a verè nu film spuorco… ma oggiggiorno i film so tutte quann accussì!
Nun hai visto però che appena so ‘sciuto dal cinema duemila lire a chillu povero… duemila lira a chillu povero me pare a me ca… Aggio disubbidito a mio padre… chillu mio padre… o ma però tu mi controlli allora scusa! E non lo so! E mi stai ‘ngull ‘ngull! Si ma guarda nu poco pure all’ate, agg’ pacienza!
Me pare ca cell’haje proprio cummè stu fatt! Si, ma guarda pure all’ate, nun guardà sul ammè! Si ma in fondo nisciun è perfetto, ognuno tene e’ cose… No, no lo so tu si’ perfett! No, stavo parlann’e nuje ccà, non ce l’avevo cuttè… no…A parte il fatto ca pure tu haje fatte i sbagli tuoi, eh… no, no, lascia sta che hai sbagliato pure tu, eh! No, certe cose le hai… lasciati pregare se ti dico che hai sbagliato hai sbagliato! E’ capitato certe volte… No, parla parla!
No, “lasciati pregare” era un modo di dire, subbito te miett in posa! Non lo so! Ma no, era ‘rint ‘o discorso… no, parla! Si, era ‘rint ‘o discorso…No hai sbagliato! Certe cose le hai sbagliate… Haje fatt’ tutt’e cose buon tu? Tu non haje mai sbagliato? Cioè, secondo te l’ippopotamo è bello! Ja’… L’haje cumbinato ‘e chella manera l’ippopotamo! Lascia sta… lascia sta… Ma te pare bello ca chillo adda sta semp rint all’acqua cumbinato e chella manera… Ma è logico ca si lamenta! Poi bestemmia l’ippopotamo malamente…
Ma si tu ‘o combini e’ chella manera….No, no, no… mica sulo l’ippopotamo! No, no tu pure ‘a foca haje sbagliato! No tu a foca l’haje fatta a metà! Ti si scurdato e c’fà e zampette a’a foca! Ma perchè adda camminà ‘ngoppa a panza ‘a foca, scusa? E’ scomodo, è scomodo, nun da retta! Ma no, è scomodo a camminà ‘ngoppa a panza!E si lamentano, giustamente, si la mentano… No! No, no, pure l’elefante! L’elefante l’aggio sentute proprio je ca si lamentava! E c’o fatto ca c’hai miss chella cosa annanz’all’elefante! Si ma perchè c’hai missi chillu coso annanz all’elefate? Eh, stu fatt che…
Vuliv fa ‘o serpente, vuliv fa’?! E fatti prima gli esperimenti a parte, scusa! Ma no, per piacere…
[…]
E vabbè, chillo so animali, so animali… Che significa “so animali”? …Che poi pure gli uomini si lamentano, eh!Si, l’aggio sentuti proprio je ca si lamentaveno… Eh, dicevano “però iss pure ha sbagliato…”Tu nun’è sient perchè chill’ parlano tutt’accussì… Si lamentano… Non lo so… ‘riceno ca tu hai fatto tutt’e cose a favore ‘ro ricco… C’ò povero è destinato a ‘jì all’inferno! O povero adda fa perforza peccati! Eh! ?o fatto dei comandamenti! “Non desiderare la roba d’altri!”… mo passa nu ricco allà e me vede: che tene ‘a desiderà chillo ‘e me, scusa?!
‘O uaje è semp’ ‘o nuost! Ma lascia sta’, so cose… “Non desiderare la donna d’altri”… Tu ‘a cunusc’a mia moglie no?No, siamo d’accordo! Siamo d’accordo: quist’ è nu fatto mio… me lo dovevo guardare prima io… siamo d’accordo!“Non fornicare”… che significa non fornicare? Tu saje ca je aggio fornicato senza sapè? No, je penzave ‘e furmiche! Eh! Penzave ‘e furmiche! E’ venuto nu periodo c’camminavo accussì!
[…]
Ma chi è che capisce non fornicare, scusa? No… no, no, je so calm, guard…
No, no je so calmissimo… no, no, no, ca’ se ci sta uno ca se sta innervosendo sì proprio tu! Eh, je te vec tutto arraggiato! Eh! Stai tutto innervosito! Eh, l’età, l’età, l’età… Lascia sta, lascia sta, ca tu pure quann’eri ggiovane eri accussì, eh! Subito t’innervosivi! Come no? Chella povera uagliona pe’ se’ mangià na mela facessi succedere n’ira di dio!
[…]

 

Non sono mai stato definito un tipo spiritoso, i timidi e riservati, poche volte, credo, sono anche divertenti e umoristici. E, invidio (senza cattiveria), un pochino, chi ha uno spiccato senso ironico, la battuta pronta e la capacità di far nascere un sorriso, anche, quando nulla ci sarebbe da ridere. La mia compagna è ferrea nella convinzione che io e l’ironia non ci siamo mai conosciuti.

 

Ma a me sembra di averla vista e di averci, pure, scambiato due parole.

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natodallatempesta0 più di un mese fa

 

Stamattina sono uscito per alcune commissioni, sbrigate in più o meno un’ora, niente auto, una bella e sana camminata. Al rientro mi sono fermato sulla battigia, come ho già scritto altre volte, il mare è a due passi da casa mia.
 

Mi sono seduto e per quindici minuti ho osservato il mare.

Nei primi minuti non ho pensato a nulla, poi, ho iniziato a vagare con i pensieri.
Sembrano pochi quindici minuti e invece riescono ad accogliere tanti pensieri.
Ovviamente le priorità non sono state così nobili come quando scrivo in questo spazio. Niente poesia, niente amore, niente indignazione per la violenza, semplicemente le bollette e il lavoro, il lavoro da creare, inventare.
Mi hanno, sempre, accusato di avere la testa fra le nuvole, credo sia normale, per chi tende ad avere spiccate doti creative.
Ancora ricordo il suggerimento scritto sull’attestato di licenzia media: “si suggerisce il liceo artistico o l’istituto d’arte”.
Era scritto.

 

Seduto sulla battigia i pensieri sono volati, ora che scrivo e descrivo quelle sensazioni non più davanti al mare, ma dietro un pc, le idee si intrecciano e altri pensieri si aggiungono.

 

Ieri ho passato l’intero pomeriggio ad ascoltare Chopin, tre ore d’isolamento, io, il piano di Rubinstein e tanta emozione, era da tempo che non mi capitava.

Al momento mi sento vuoto, che non è, necessariamente, un male, potrebbe essere un altro modo per dire libero. Non so da cosa, ma va bene, è una sensazione che conosco e vivo spesso.
 

A riempire di nuovo mente e cuore, ci penseranno, la mia arte, la mia dolce metà e, sì, anche le tante preoccupazione e tensioni quotidiane. Va bene così.

 

 

La meravigliosa opera che ho condivisa sopra è, La Polacca in La bemolle maggiore (Op 53) detta Eroica, scritta da Chopin nel 1842 durante un momento di grave malinconia, causato dalla morte di un amico caro. Si racconta che mentre componeva, preso dall'esaltazione, Chopin vedesse apparire nella sua stanza un corteo di nobili, principi ed eroi.

 

Morrison disse che: “Un giorno anche la guerra s'inchinerà al suono di una chitarra.”

 

Lo spero, spero un giorno la violenza s’inchini al suono di un piano forte,
al verso di una poesia, alla forma di un paesaggio,
unico testimone di un passato non più ripetuto.
Lo spero, spero un giorno l’indifferenza s’inchini al pianto di un bambino,
alle braccia alzate di un immigrato, al corpo sottomesso di donna,
al cuore smarrito di uno zingaro, alle ginocchia piegate di mendicante.
Lo spero, spero un giorno il mondo, tutto il mondo, s’inchini
all’amore.

 

Il mio Morrison - 1986

 

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natodallatempesta0 più di un mese fa

 

Sono un paio di giorni che non scrivo nulla, il che non è necessariamente un male o un problema. Per chi, però, è abituato come me a scrivere qualcosa ogni giorno, questa inattività viene percepita come una mancanza d’ispirazione, ovviamente, so che non è così.

 

Anche oggi stavo per non scrivere nulla, poi però, mi sono deciso a condividere questo pensiero.
In verità nonostante, in questi giorni, non ho scritto, non sono stato lontano dalla comunità, sono comunque entrato. Ho risposto ai commenti e passato il tempo a girare tra i profili, senza alcuna particolare necessità, così, solo per il piacere e la curiosità di vedere cosa scrivevano gli altri.

 

A volte mi sono divertito, altre sono rimasto perplesso, altre ancora... diciamo che mi hanno portanto a domandarmi: "non capisco perché certi utenti insistono ancora a rimanere qui?". Comunque nulla di nuovo o di che, la solita comunità.

 

L’umore tanto per cambiare non è bellissimo, quindi, continuando con il mio racconto, potrei diventare pesante nei toni e nelle emozioni, chi vuol fermarsi è libero di farlo.

 

Voglio recensire un film che mi sono visto ieri insieme alla mia compagna, non una visione casuale, ma un film scelto e proposto di proposito alla mia dolce metà. Film che avevo già visto ed ho rivisto con piacere. Film ispirato come spesso accade da un libro.

 

Il film s’intitola: Lion - La strada verso casa.
Il libro s’intitola: La lunga strada per tornare a casa di Saroo Brierley.

 

Il libro e di conseguenza il film, sono la trasposizione scritta e cinematografica della vita di Saroo Brierley. Una vita assurda e tristemente reale per il contesto descritto. Una storia commovente, straziante, che subito indigna i cuori di chi l’ascolta, indignazione che ha lo stesso valore, però, della società che porta Saroo a vivere la sua triste esperienza, un'indignazione falsa e crudele come è, l’essere umano oggi.

 

In copertina si legge:

 

Per sapere chi sei,
devi sapere
da dove vieni

 

Trama (per chi non l’avesse ancora visto suggerisco di saltare questo passaggio e andare quando prima a vedere il film o meglio ancora leggere il libro.):
Tutto inizia con una fatalità, un errore inconsapevole che porta il piccolo Saroo a ritrovarsi solo in un mondo ostile. Saroo ha presumibilmente cinque anni, o almeno è questa l’età che le autorità pensano abbia quando viene trovato a vagare da solo per le strade di Calcutta. L’errore commesso da Saroo è stato salire su un treno e addormentarsi. Le porte si chiudono e senza la possibilità di uscire e tornare dalla famiglia, inizia un viaggio interminabile, e lo è davvero interminabile.
Una volta sceso, Saroo è solo e comincia a vagare, fra l’indifferenza di chi gli sta attorno. L’imperativo, in questo momento, è uno soltanto: sopravvivere. Come lui, tanti altri bambini e ragazzini dimenticati girano indisturbati per le vie di Calcutta, lasciati all’oscurità di una megalopoli pericolosa e perversa.
Nonostante abbia una famiglia da qualche parte, Saroo, non riesce ad indirizzare le autorità, è piccolo e non ricorda né il nome del suo villaggio né altro. Neanche i tentativi di scrivere al giornale locale per inserire la sua foto fra quelle dei bambini scomparsi sortiscono effetti positivi e così un giorno, Saroo si ritrova in orfanotrofio.
Nel 1987, Saroo parte per l’Australia, una famiglia lo adotta, per lui inizia una nuova vita. Ma il cuore inquieto di chi sa di avere gli affetti lontani lo spinge a disegnare mappe del suo villaggio e, da grande con l’ausilio di Google Earth, a scandagliare tutte le città dell’India alla ricerca di qualcosa di familiare che possa ricondurlo a casa.
Un’impresa titanica, come cercare un ago in un pagliaio, ma alla fine, quasi incredibilmente, Saroo riesce a trovare degli elementi a lui familiari: la cisterna vicina alla stazione dei treni, il ponte, la diga, la sua vecchia casa.
Non gli resta che partire e andare di persona in India.
La determinazione di Saroo lo porterà in un viaggio a ritroso nel tempo, fino a trovare davvero la sua famiglia e a riabbracciare la madre. Un finale commovente che dona una lieto fine al racconto di Saroo.
Fine trama

 

Il libro e poi il film puntano indirettamente i riflettori su un tema scottante in India ed è, quello dei bambini dimenticati. Saroo rischia molte volte di finire nelle mani di persone sbagliate, essere umani, come me e voi, pronti a trasformare l’innocenza in un mostruoso inferno.
In rete ci sono tanti siti, ufficiali e non, che raccontano queste realtà, realtà non solo indiane.
Voglio condividere un articolo preso da uno di questi siti. Un articolo della Dott. A. Fucci.

 

“In un mondo progredito come il nostro, esistono ancora troppe ingiustizie. Forse il progresso lo abbiamo avuto nel campo della medicina, della scienza, ma a livello sociale, o meglio umanitario siamo davvero progrediti?
Il mio articolo si base sull’ennesima tragedia che colpisce i bambini, sempre loro, i soggetti più deboli e fragili che dovrebbero essere al primo posto nelle nostre società e che, invece, ancora troppo, vengono ignorati e… abbandonati.
Poco si parla di un fenomeno molto grave soprattutto in India. Perché l’India non è solo il Paese affascinante per i turisti: tripudio di colori e di spiritualità ma anche è una Repubblica con un tasso demografico altissimo e uno stato di miseria che aumenta vertiginosamente.
La capitale dell’India è piena di ragazzini che ciondolano in giro, hanno lo sguardo smarrito e perso nel nulla, dalla mattina fino a tarda notte. Nessuno li osserva, nessuno se ne cura e si confondono nella folla brulicante di Nuova Delhi. Ragazzini costretti a sniffare la colla, non per sballarsi ma per sopravvivere al freddo e alla fame.
Sono i bambini invisibili, vivono divisi in gang, nelle stazioni della città e sono un numero spaventoso. L’Unicef parla di oltre 10 milioni di “street children”, così come definiti dalle Nazioni Unite. In metropoli come Bombay, Calcutta, Bangalore, Madras e Hyderabad, si stima che i soli bambini delle stazioni siano 300mila. Delhi da sola ne conta oltre 50mila.
Statistiche che non sono certe e neanche prevedibili in quanto moltissimi di loro non sono registrati e sono per lo più girovaghi. Le stime ci servono solo per far capire la vastità del problema, problema ignorato dall’India e dal mondo intero.
Tanti bambini sono orfani, altri sono stati abbandonati, ma la maggior parte di loro scappa da casa, lasciandosi alle spalle storie di violenze, abuso o povertà estrema. Saltano sul primo treno, si nascondono nei bagni, diretti verso una grande città, carichi di speranze e illusioni. Il più delle volte finiscono a vivere in strada, una vita di solitudine e dipendenza ai margini della società. A questa tragedia se ne aggiungono altre.
Questi bambini, spogliati di ogni diritto e privati della loro fanciullezza, diventano preda di poliziotti corrotti o adulti senza scrupoli. Costretti non solo a subire soprusi, ma anche a lavorare per sopravvivere. Tanti fanno i “rag pickers”: rovistano nella spazzatura e raccolgono in giro plastica, cartone e alluminio da riciclare e rivendere a peso. Molti muoiono prima di raggiungere i vent’anni.
Altri ancora sono dipendenti da colla e solventi a base di toluene, una sostanza volatile tossica i cui effetti sono simili a una droga. Un tubetto di colla costa poche decine di rupie e li aiuta a superare il freddo e la fame, ovattandoli dalla realtà in cui vivono. Ne inalano i fumi da una pezzetta intrisa di solvente che portano alla bocca, stretta nel pugno, a intervalli regolari. Le loro giornate ruotano intorno all’uso di colla e agli orari dei film di Bollywood. Bollywood, centro di produzione dei film americani e cinema popolare indiano, è l’unico svago di questi bambini.
Oltre al cinema, alla miseria, al lavoro, alle brutture della vita, oltre al tunnel della colla, giornalisti che hanno intervistato i ragazzini ci parlano di una vita per loro normale, semplice fatta di litigi, amicizia, sogni, paure e una libertà difficile da capire. Vivono insieme, divisi in piccole gang che gravitano attorno alle principali stazioni ferroviarie, dormendo nello spazio che separa le pensiline dei binari dal sovrapassaggio, o nei vicoletti cupi e polverosi della capitale che di notte diventano spettrali. Non dormono mai da soli: la gang diventa la loro famiglia, il loro unico riferimento, una piccola comunità con regole e gerarchie ben definite.
Esistono diverse Ong locali e internazionali che si occupano con successo del recupero dei bambini dipendenti dalla colla. Ma la vastità del problema non fa del loro lavoro che una goccia nel mare. Il loro target, infatti, sono i bambini più piccoli, quelli che sono in giro al massimo da un paio d’anni. Quelli che la dipendenza e la vita di strada non hanno reso irrecuperabili, ma speriamo in un reinserimento e riscatto per ogni singolo innocente.”
Fonte: F4crnetwork

 

La realtà descritta non deve far pensare che quello che avete appena letto, sia distante dalla nostra società. Le modalità, i contesti sono diversi, ma quel che sentono e subiscono i bambini, solo gli stessi tormenti e dolori che sentono e subiscono i nostri bambini.

 

Orrori che nessuno vuole vedere e accettare.

 

Bambini istruiti da famiglie mafiose o camorristiche che ereditato in sorte un infausto e terribile destino.
A 7 anni imparano a sparare. A 16 a controllare le piazze di spaccio. A 20 muoiono nelle faide tra clan.

 

Storie vere, storie che nascono, crescono e muoiono all’ombra della nostra vita. A pochi passi dai nostri quartieri, dalle nostre case. Storie che si ripetono anno, dopo anno.

 

A Mariano Comense, profondo nord, un bambino dice al padre che vorrebbe collaborare con il cugino perché gli altri «lo temevano». Il cugino poco più che ventenne, nato anche lui nel cuore della Lombardia e nipote di un anziano e storico boss della ‘ndrangheta.

 

A Napoli ci sono bambini usati come pusher. Droghe nascoste negli ovetti kinder, piccoli che diventano inconsapevoli corrieri di nemmeno dieci anni che sacrificano un pezzo di vita ai clan della camorra.

 

A Reggio Calabria c’è chi a 7 anni maneggia la rivoltella come si faceva una volta con il Game Boy. S’ha da imparare a sparare, e occorre sapere cosa è e come si sopravvive nel mondo del crimine, perché, dice un altro padre al figlioletto nel tragitto tra casa e scuola, «nessuno rispetta la legge, i mafiosi sono contro la legge perché hanno una forza proprio per farsi giustizia da soli».

 

Nelle strade di Napoli si uccide. E tanto. Ogni anno decine e decine di morti. Una mattanza che, se ancora ve ne fosse bisogno, fa capire che le mafie sono il nostro Isis. A Napoli, scrive la Direzione Investigativa Antimafia nella sua ultima relazione semestrale, operano “oltre 110 clan”, e le nuove leve del crimine ne fanno sempre più parte, con gradi sempre più alti fin dalla più giovane età. “Baby Boss”, li ha ribattezzati la cronaca, che non si fanno problemi a intimidire e soprattutto a sparare.
Fonti: Corriere.it

 

Roberto Saviano li ha descritti con cura e dovizia di particolari, raccontando a suo rischio e pericolo la realtà nascosta di un Italia violenza e senza scrupoli.
Bambini e ragazzi privati dell’innocenza, privati di una vita serena, una vita capace di sognare.

 

Per chi mi segue sà che sono suscettibile a questi temi, primo perché soffro la mia non paternità, poi, perché sono stato un bambino abusato, cresciuto in un'ambiente povero e omertoso.

 

E mi vergogno di quello che siamo, non di quello che siamo stati, ma di quello che siamo ora.
In un blog amico, un’amica ha paragonato gli innamorati ad angeli che vivono dell’amore di DIO.
L’essere umano è tutto tranne che un angelo.

 

Mi viene in mette una frase detta da Dostoevskij: “La gente spesso parla di crudeltà “bestiale” dell’uomo, ma questo è terribilmente ingiusto e offensivo per le bestie: un animale non potrebbe mai essere crudele quanto un uomo, crudele in maniera così artistica e creativa.”

 

Per sapere chi sei,
devi sapere
da dove vieni

 

Da dove veniamo?
 

Dal Classicismo di Omero, di Ippocrate, di Fidia, di Socrate, di Platone, di Archimede?
Dalle menti illuminate di Dante, Petrarca e Boccaccio?
Dal Rinascimento creativo di Leonardo, Michelangelo e Raffaello?
Dal Romanticismo di Leopardi, di Foscolo e di Verdi?

 

O

 

veniamo, invece, dall’insensata e sinistra eredita lasciata da: Stalin, Mao, Hitler, Mussolini?

 

Violenze sessuali su due bambine: arrestato "orco" 60enne.

 

Notizia di oggi.

 

Io vorrei scrivere d’amore, raccontare di quanta passione il mio cuore mette nel donare tempo, attenzioni ed emozioni alla mia compagna, tutto per dimostrarle, semplicemente, quanto amore ho per lei.

 

Ma mi viene difficile a volte esternare bellezza e poesia. Quella poesia romantica che disseta e rasserena.
Non si può, sempre, bere da un calice di felicità, a volte bisogna riempirlo di sangue e dolore, e declinare versi che indignano e come un pugno colpiscono allo stomaco.
Ma va fatto nella realtà, nella quotidianità, nel cuore di quell’indifferenza che è, cieca a volte consapevolmente.

 

Ad un bambino basta tendergli la mano,
il suo cuore di fiducia è inondato.
Ad un bambino basta una carezza,
per sentirsi a casa,
 per fidarsi di quell’abbraccio che,
lui non sà,
ha nascosta una terribile realtà.
Ad un bambino non serve permesso,
lui ti invita ad entrare nel suo mondo,
con un semplice gesto,
usa lo sguardo,
con esso ti dona tutto se stesso.

 

E tu adulto che fai?
Il suo corpo penetri e la sua carne laceri.
Gli insegni il dolore e la paura gli fai provare.
Rendi i suoi giochi spaventosi e
i suoi ricordi ombre indefinite
di un mondo confuso e non più felice.
I suoi occhi spegni e da innocente
lo condanni.

 

 

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natodallatempesta0 più di un mese fa

 

Oggi voglio descrivere una sensazione piacevole avuta ieri.
L’intenzione sarà quella, poi non vi garantisco nulla. :-)

 

Ieri dopo più di un lustro mi è successo di prendere il treno, e come spesso capita quando riprendi o rifai qualcosa dimenticato nel tempo i ricordi riaffiorano.
Ovviamente i ricordi si concentrano al periodo studentesco, il periodo in cui non avendo auto mi spostavo attraverso i mezzi.

 

Devo dire che da allora, sono passati quasi 25 anni, le cose sono parecchio migliorate, a partire dai treni molto più comodi e veloci.
Mi sono balenati in mente alcuni compagni di Accademia e tutte le gite, chiamiamole così, intraprese per andare a visitare quella chiesa, quella pinacoteca o quel palazzo storico che ci serviva in quel momento come studio per il progetto di turno.
Per un progetto servivano anche più visite, una volta dovetti andare da solo, il mio collega di progetto, non ricordo il motivo, ebbe un imprevisto. Mi ricordo, ancora, vividamente il viaggio verso quella destinazione.
Lo studio riguardare un bellissimo portone in bronzo, decorato con magnifici bassorilievi. Il compito o progetto prevedeva, uno studio teorico storico dell’opera. Chi? Come? Quando? Per esser precisi e una parte progettuale, fatta di disegni, rilievi e in alcune casi acqueforti o dipinti.
Non so perché il mio gruppo di studio dava questa parte sempre a me, ingiustamente ritenevano le mie doti di riproduzione (essendo un perfezionista) superiori, in realtà non era vero, era la tecnica che usavamo diversa, ogni artista tenda a sviluppare la sua ed essendo io il più fedele alla realtà in quel momento della crescita artistica, per loro era logico che mi occupassi io della parte progettuale relativa all’acquaforte o il dipinto, significava un voto più alto.
Ovviamente mi necessitava avere l’opera davanti, avevo la reflex ma non era la stessa cosa avere l’opera davanti, le foto andavano bene per le rifiniture, i dettagli, ma la percezione del colore, della tridimensionalità, è percepibile solo stando davanti all'opera.
Il portone si trovava in una chiesa di Caltagirone, oggi in treno ci vogliono circa un’ora e quaranta minuti per raggiungerla, all’epoca, forse, qualcosina in più.

 

Il viaggio di ieri, un viaggio breve al dire il vero, mi ha ricordato tutto questo.

 

E una sorta di quasi rimpianto mi ha assalito.
Rimpiangi i periodi belli e nel mio passato il periodo accademico è stato il più bello.
D’Annunzio disse: “Il rimpianto è il vano pascolo di uno spirito disoccupato. Bisogna soprattutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove immaginazioni.”

 

Parafrasando Hikmet potrei scrivere:

 

 il più bello dei nostri ricordi
non lo abbiamo ancora vissuto

 

Hanno ragione entrambi, il rimpianto se poi è legato al passato, è un male che si auto genera e produce paura sotto la falsa forma della malinconia. So che hanno, quindi, ragione, so che la bellezza della vita è nel presente e che l’illusione di vivere un presente non all’altezza del passato è, pericoloso per il futuro. Ma sono purtroppo un’anima malinconica.

 

Da un lato ho colto la bellezza del viaggio e l’emozione nel vivere il treno una volta ancora, dall’altro rimpiango i bei momenti che esso mi ha suscitato.

 

In una poesia d’amore e gioia, vi è sempre un verso di malinconico tormento.

 

Vivo l’amore e la gioia,
l’arte e la passione e
scrivo versi d'incommensurabile felicità.
Ma ahimè tra una virgola e
un punto.
Nasce, sempre, una lacrima
malinconica.

 

 

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