
L'ARCHIVIO DELLE RECENSIONI
“Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri” Paolo Borsellino
Ogni tanto nella vita c’è bisogno di una boccata d’ossigeno. No, non parlo dell’ossigeno necessario alla nostra sopravvivenza, quello che automaticamente respiriamo tutti i giorni. Parlo di un altro tipo di ossigeno, un ossigeno morale. Viviamo una contemporaneità agra, molto più di quella descritta da Bianciardi nei primi anni sessanta: la più grave crisi economica dopo quella del 1929 sta distruggendo le esistenze di milioni di italiani mentre la politica nazionale dà il peggio di sé tra ministri sempre pronti a correre in soccorso degli amici che contano ed ex primi ministri che s’abbarbicano allo scranno di senatore per tema di ritrovarsi con un paio di manette ai polsi. In tutto questo, leggere le bellissime e toccanti memorie di famiglia di Agnese Piraino, vedova Borsellino, è –appunto- come poter di nuovo respirare all’aria aperta dopo la fuga da un palazzo in fiamme, perché Paolo Borsellino, al di là dell’agiografia di maniera che ne circonda da anni l’opera e la figura (un ‘agiografia spesso ruffiana e talvolta persino farisea, che punta alla santificazione del “personaggio” Borsellino per far passare in secondo piano il messaggio della “persona” Borsellino), è la testimonianza purtroppo non più vivente della possibilità che esista nel nostro Paese un modello di italiano diverso da quello con cui siamo abituati a confrontarci e da cui dobbiamo continuamente prendere le distanze.
Le pagine del diario della signora Agnese (deceduta, lo ricordiamo, nello scorso mese di maggio, dopo una lunga malattia) ci restituiscono infatti la dimensione umana e domestica del giudice Borsellino, visti nella cornice di una normalissima famiglia italiana alle prese con i problemi di tutte le normali famiglie italiane. L’affettuoso e commosso ricordo della moglie si dipana in un arco temporale che parte dai primi anni sessanta, dall’incontro di quella ragazza della buona borghesia palermitana (era la figlia dell’allora presidente del Tribunale di Palermo) con il giovanissimo pretore di Mazara, fino ai giorni tragici di via D’Amelio, alternando i momenti allegri o sereni a quelli angoscianti , in cui l’uomo di Stato Borsellino si rese conto che proprio una parte di quello stesso Stato che lui difendeva aveva decretato la sua condanna a morte, affidandone l’esecuzione ai carnefici di Cosa nostra.
E fu così che un normale italiano, un lavoratore serio, onesto ,coscienzioso, competente, rispettoso delle regole, umano e corretto verso i colleghi , i superiori e persino gli stessi malviventi che perseguiva, divenne splendida anomalia e fulgido esempio per le generazioni future. Ma lui era solo un italiano che credeva nella legge , nella civile convivenza , nella famiglia e negli affetti. Trovò sulla sua strada una organizzazione che, sfruttando la paura o addirittura la connivenza morale di tanti cittadini, si arricchiva (e continua ad arricchirsi ) illecitamente sui loro difetti, sul viscerale vitellonismo menefreghista, sul mito del facile arricchimento, sulla callidità elevata a misura di tutte le cose, sul sotterfugio e la scorciatoia come uniche vie da percorrere nella vita. Trovò tutto questo e semplicemente, naturale come bere un bicchier d’acqua, vi si oppose. Primo perché ci credeva e secondo perché era pagato per farlo.
Ma nella Sicilia dei gattopardi la normalità di Paolo Borsellino non poteva essere che scandalo, stravaganza, eccezione alla regola da far passare sotto silenzio per scongiurare pericolose contaminazioni . Borsellino da vivo è stato veramente un serio pericolo per qualcuno, e non tanto per le sue scrupolose indagini e la tenacia con cui mandava alla sbarra i mafiosi. E’ stato un pericolo perché esempio vivente di una italianità operosa e onesta che minacciava di migliorare i costumi debosciati di tanti italiani e siciliani, quei costumi su cui la malavita organizzata basava e basa tuttora gran parte della propria forza :“noi non siamo diversi da voi. Siamo solo più feroci e determinati”, era (ed è ancora) il messaggio. Da morto invece avrebbe cessato di rappresentare un pericolo, perché sarebbe bastato “iconizzarlo”, appenderne l’immagine al muro con un lumino sotto. E’ quello che è accaduto. Guarda caso, il giudice Borsellino, così come il giudice Falcone, dopo la morte ha smesso all’improvviso di avere nemici: tutti in fila ad omaggiarne la memoria, parecchi contenti che ormai fosse solo memoria. Invece dovremmo insegnare ai nostri giovani, specie a quelli che ancora (e per fortuna) sfilano nei cortei commemorativi o affollano i convegni sulla legalità, che Paolo Borsellino preferirebbe qualche chilometro di marcia in meno e qualche metro di cultura civica in più. La signora Agnese nel suo libro (scritto con la collaborazione del giornalista della redazione palermitana di Repubblica Santo Palazzolo ) ce lo ricorda spesso: Borsellino amava più gli esempi concreti che le manifestazioni simboliche. Ci vogliono pure quelle , per carità, ma senza mai dimenticare che si onora davvero la memoria degli italiani migliori provando a imitarne le condotte e a mutuarne i valori.
Novembre 2013