Hanna Arendt nel suo famoso saggio ci ha ricordato la banalità del male. Ariel Dorfman , nella sua piece teatrale (di cui Hollywood ha tratto una versione cinematografica) “La morte e la fanciulla”, ci ricorda invece che il male, oltre che banale, può essere anche qualcosa di terribilmente accidentale, un risvolto dell’animo umano che risale puntualmente alla superficie laddove le circostanze lo consentono, talvolta indipendentemente dall’indole dei singoli.
In un Paese appena uscito da una feroce dittatura militare (che si può intuitivamente identificare col Cile), un uomo,Gerardo, oppositore del passato regime, ha appena avuto l’incarico di presiedere una commissione d’inchiesta governativa sui crimini dei generali e dei loro complici. La moglie di Gerardo, Paulina, torturata e violentata ripetutamente vent’anni prima , porta ancora addosso i segni di quella terribile esperienza. I due alloggiano per le vacanze in una casa sul mare ed una sera Gerardo, rimasto in panne con la macchina, viene aiutato da un medico di passaggio, Roberto, che successivamente si presenta a casa sua e viene invitato a trattenersi per la notte. Paulina, non vista, riconosce nella voce del medico quella di uno dei suoi aguzzini. Durante gli interrogatori, infatti, era rimasta bendata per tutto il tempo e dei suoi torturatori può riconoscere soltanto la voce.
Inizia da qui, in un crescendo drammatico, una discesa dei tre personaggi nell’inferno del dolore inferto e subito, con la donna che sequestra e lega il medico minacciandolo con una pistola e obbligando il marito riluttante a condividere la sua personalissima vendetta.
Ma non c’è appagamento per la vittima né espiazione per il suo persecutore. C’è solo una profonda ferita nel costato di un Paese e dei suoi cittadini che nessun castigo postumo potrà mai rimarginare. Paulina è certa di aver davanti il dottore che aveva attivamente e sadicamente partecipato alle sevizie ed è decisa a farlo confessare. Gerardo, che all’epoca evitò l’arresto proprio grazie al silenzio di Paulina, prova in tutti i modi a riportarla alla ragione, ma sconta, agli occhi della moglie, il peccato originale di non aver subito ciò che aveva dovuto subire lei.
Roberto, il medico, nega con tutte le sue forze di essere la persona che aveva infierito sul corpo di Paulina, ma poi, convinto a farlo da Gerando, rilascia una confessione troppo dettagliata per essere falsa. Eppure il dubbio resta ed è bravissimo Dorfmann a confondere nel lettore i ruoli del colpevole e della sua vittima, rendendolo incerto sulle reali colpe dell’uno e sulle ferree convinzioni dell’altra.
Ma soprattutto è abile lo scrittore nel far emergere quel grumo nero di ferocia che alberga dormiente in ogni essere umano e che rivede puntualmente la luce ogni qualvolta va in onda il sonno della ragione: Roberto nella confessione sostiene che egli inizialmente aveva offerto il proprio supporto professionale agli interrogatori proprio per tentare di alleviare le sofferenze degli arrestati. Poi, però, l’assuefazione alla violenza l’aveva contagiato, facendogli provare l’ebbrezza di infierire impunemente su un essere umano indifeso.
Non si tratta di disumanità, sembra dirci l’autore,ma anzi del nucleo primigenio dell’umanità, quello sepolto sotto una spessa coltre di secolari regole di adattamento e convivenza, che sortisce fuori in tutta la sua sconvolgente ferinità, spazzando via certezze e valori. La vocazione al male è dietro l’angolo, dunque, e nessuno può credersene immune. Nei dialoghi affilati e rabbiosi dei protagonisti, nell’atmosfera buia e claustrale di un luogo che pare ai confini del mondo ritorna così l’irrisolto dilemma dell’uomo, la sua irrisolta e tragica solitudine di essere vivente eternamente in bilico tra le bestie e gli dei.