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Maggio 2017
Damnatio memoriae
Stiamo vivendo in politica (ma non solo) un’epoca di grande mediocrità collettiva, mediocrità di eletti e mediocrità di elettori. Una grande mediocrità pur tuttavia ugualmente elevata al Sacro Soglio parlamentare o governativo dall’assenza pressoché assoluta di eccellenze. E’ una sorta di paesaggio lunare delle competenze e delle personalità talmente desolante da indurre il cinquantenne medio (ossia chi ha l’età minima per poter fare certi paragoni) a gridare al miracolo quando- ad esempio – in tv appare il volto al contempo pacioso e sornione, da pizzicagnolo partenopeo uso a rifilar fregature ai clienti, di un Cirino Pomicino.
Esatto, ho scritto proprio Cirino Pomicino e garantisco di non essere sotto l’effetto di droghe o alcool. Proprio lui, uno dei “fetentoni” per eccellenza di Mani Pulite, simbolo stesso delle maramalderie da Prima Repubblica, da sempre –nell’immaginario popolare- nella ristretta cerchi dei politici più disonesti e corrotti mai partoriti dall’Italia repubblicana. Vilipeso, irriso, a suo tempo ridotto da certo giornalismo montagnardo a macchietta d’avanspettacolo del tangentismo di bassa lega e additato al pubblico ludibrio quanto e più di altri esponenti politici di quella stagione, nell’odierno Sahara dell’offerta politica quando parla in tv appare un gigante, non foss’altro che per l’eloquio forbito e misurato. Un cimelio d’altri tempi, insomma, un “rinascorinasco del milleottocentocinquanta” da far scappare la lacrimuccia ai tanti che, gozzanianamente, rimpiangono le piccole cose di pessimo gusto di un periodo della Storia patria in cui di quello che dicevano i politici non si capiva una benamata erma ma di cui in ogni caso si intuiva la statura, la cultura e il senso delle istituzioni che ci stavano dietro.
Persino in quelli un po’ cialtroni o canaglie, che mai però erano tali fino in fondo. Nella prima edizione della nota fiction di Sky su Tangentopoli (1992), un discusso senatore democristiano dall’inconfondibile accento campano confessa ad un poliziotto di essere nel mirino di alcuni suoi colleghi per il suo rifiuto di votare un provvedimento che avrebbe inondato di plasma infetto tutto il Servizio sanitario nazionale. Mirabile esempio, benché frutto di immaginazione, del tipo di confini etici che tanti politici di allora rotti ad ogni nefandezza non osarono varcare.
Per il resto, per carità, non si fecero mancare nulla: mazzette, finanziamenti allegri per opere inutili buone solo a raccattar voti e facile consenso, bavagli a giornalisti e magistrati, depistaggi di inchieste, intese e connivenze con la malavita organizzata. Tuttavia, anche i peggiori di loro, per ideologie professate o per condotte deplorevoli, avevano in dotazione – di serie – tempre, caratteri e retroterra culturali di pantagruelico spessore. Non mi stancherò mai di citare, a questo proposito, l’omaggio di Almirante alla salma di Berlinguer e quello di Pajetta alle spoglie mortali del segretario del MSI. Una roba da far accapponare la pelle, soprattutto se si pensa che stiamo parlando di uomini che in gioventù si erano sparati addosso.
Oggi capiamo quasi sempre e perfettamente i discorsi dei politici (ed è questo forse l’unico lascito duraturo di Tangentopoli, che ha spazzato via, insieme con una intera generazione di amministratori pubblici, anche le fumisterie verbali e i contorti bizantinismi a cui ci avevano abituato), ma altrettanto spesso vorremmo non comprenderli, tanta è la miseria argomentativa e di contenuti che esibisce indecorosamente la gran parte di costoro. Vedere, nella veste di autorevoli opinionisti dei numerosi pollai televisivi che intasano i nostri condotti uditivi, certi pseudo giornalisti tanto logorroici quanto inconsistenti o certi deputati che brillano unicamente per l’acconciatura del coiffeur di grido, se donne, e per il taglio impeccabile dell’abito sartoriale, se uomini, dà la misura del fondo che si è raggiunto da tempo e che da tempo si sta provando inutilmente a grattare.
La verità è che la damnatio memoriae, anche quando è strameritata (come nel caso della maggioranza dei politici travolti dall’inchiesta “Mani pulite”), spesso si porta appresso un cascame nauseabondo di approssimazioni, giudizi sommari e pregiudizi ottusi. Si cancella pertanto il nome di una persona dalla lavagna dei giusti dello Stato e della società buttando però puntualmente “bambino e acqua sporca”. E così gogna perenne, usque ad sidera et ad inferos, per il Craxi tangentaro ma anche per il Craxi che a Sigonella sfidò l’arroganza americana e per quello che dall’ ”esilio” tunisino rilasciò una impressionante e profetica intervista televisiva (il cui video è facilmente rintracciabile su Youtube) sulle conseguenze nefaste che i trattati di Maastricht avrebbero avuto per l’Italia e per la sua economia.
Ma se tutto ciò risulta già arduo da digerire quando l’ostracizzato di turno viene sostituito da qualcuno che non lo fa rimpiangere e che anzi spicca, al contrario del primo, per illibatezza di costumi e comportamenti, diventa decisamente intollerabile quando il rimosso viene rimpiazzato da soggetti che in un mondo perfetto (per dirla con Clint Eastwood) non potrebbero neppure pensare di aspirare a determinati incarichi e responsabilità.
E’ quello che è accaduto in Italia dopo il terremoto giudiziario dei primi anni novanta. Il nostro è un Paese che tra i tanti difetti non si è mai fatto mancare neppure la presenza invadente di un settarismo miope e becero (e politicamente bipartisan, è bene precisarlo), principale responsabile di quest’uso disinvolto del furore iconoclasta che ogni tanto s’abbatte su uomini e idee. Un modus agendi sconsiderato, che ha privato le nuove generazioni degli apporti feraci di individualità sovente onuste in egual misura di pregi e di mende e nei confronti delle quali la condanna inappellabile andava limitata soltanto alle seconde.
Peraltro, il vizio di imprimere imperituri, omnicomprensivi e qualche volta persino ingenerosi marchi d’infamia da noi è di antica data. Due nomi su tutti: il filosofo Giovanni Gentile, autore dell’unica (finora) riforma decente della scuola italiana post unitaria (parola di un filosofo di formazione marxista come Diego Fusaro), uno dei massimi pensatori italiani di tutti i tempi il cui omicidio resta, ad avviso di chi scrive, tra le pagine più buie della Resistenza, pari forse per indegnità solo al massacro dei partigiani della Osoppo; e Giuseppe Bottai, gerarca fascista anomalo, grande e mal sopportato eretico del regime, una delle poche menti lucide dell’entourage mussoliniano.
Ma se tante parole si sono spese nel dopoguerra a favore del primo, poche sono le voci levatesi per rivalutare il secondo. Provo dunque io, nel mio piccolo, a rimediare (preceduto in ciò, è bene ricordarlo, da una famosa e controversa monografia di Giordano Bruno Guerri: Giuseppe Bottai, fascista critico).
Uomo di solida cultura umanistica, protettore di intellettuali di fronda quando non apertamente antifascisti, Bottai è stato il promotore e l’anima di una rivista letteraria (Critica fascista) a cui parteciparono le migliori intelligenze del periodo e che tentò di alimentare le braci del dibattito culturale e del confronto di idee pur nel clima plumbeo della dittatura. A Bottai si devono anche le prime legislazioni a tutela dei beni culturali e paesaggistici (Leggi 1089 e 1497 del 1939, abrogate soltanto nel 1999, con il varo della cd. Legge Galasso) e per l’ordinato assetto del territorio (Legge urbanistica 1150 del 1942, tuttora in vigore) nonché nel 1921 il tentativo, fallito per colpa dell’ala muscolare del fascismo, di giungere ad un patto di pacificazione coi socialisti. Negli anni di Salò, ricercato per motivi opposti da ex camerati e CLN, si arruolò nella Legione straniera combattendo in Francia e in Germania contro i nazisti per (come scrisse) “espiare la colpa di non aver saputo fermare in tempo la degenerazione fascista”.
Un solo neo, enorme, oltre alla partecipazione alla fase squadristica della presa del potere da parte di Mussolini: l’adesione alle leggi razziali. Conoscendo il profilo innegabilmente liberale della personalità di Bottai (omaggiò sempre i Farinacci e i Pavolini di un esplicito, sdegnoso e aristocratico disprezzo), la sua scelta di campo sembrerebbe frutto di un inspiegabile corto circuito. Ma è probabile che la decisione di avallare quelle norme ignobili sia stata fortemente influenzata dalla necessità di non peggiorare ulteriormente i già pessimi rapporti che nel 1938 (anno di promulgazione delle leggi) ormai intercorrevano tra lui e il Duce, il quale notoriamente nutriva nei suoi confronti sentimenti allo stesso tempo di timore e fastidio: timore per l’intelligenza, fastidio per lo spirito critico.
Chi scrive crede fermamente che il prestigio e l’autorevolezza di una nazione siano il risultato di un mosaico composto dalle tessere di tutti coloro, nessuno escluso, che in vita l’hanno in qualche modo “illustrata”. Il rispetto di questo principio comporta la necessità di abburattare le esistenze di ciascuno, passando al setaccio le cose buone e le cose meno buone, per trattenere le prime e gettare le seconde. Ripudiare in toto figure che in ogni caso, al netto di debolezze, inciampi, sciatterie o vere e proprie mascalzonate, un pur minimo contributo alla edificazione di un Paese migliore a modo loro l’hanno fornito, vuol dire impoverire la memoria storica della comunità e privarla di punti di riferimento nella faticosa costruzione del proprio futuro.