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Il beneficiario rancoroso

 
Matteo Renzi con Domenico Minniti, detto  Marco, che con lui presidente del consiglio fu sottosegretario della Presidenza del consiglio con delega  all'Autorità delegata per la Sicurezza della Repubblica

Matteo Renzi con Domenico Minniti, detto Marco, che con lui premier fu sottosegretario della Presidenza del consiglio

Ho letto il libro di Matteo Renzi e sono rimasta colpita, da frequentatrice di lungo corso della politica italiana, soprattutto dal modo esplicito con cui indica le persone di cui parla. Un’assenza assoluta di prudenza – caratteristica fondamentale dell’agire politico – che mi ha fatto tornare in mente lo striscione della gloriosa stagione del Teatro Valle Occupato: “Com’è triste la prudenza”, diceva. E’ triste. E’ triste che di quel teatro non si parli più, sembrava ed era una grande battaglia di cultura e democrazia, ma costa troppo, si vede, scoperchiare certi tombini sigillati – indicare le antiche responsabilità e assumersene di nuove.

Certamente quella di Renzi è una veemente autodifesa, è la sua versione dei fatti: tuttavia, ripeto, ho letto nei decenni decine di libri di leader politici. Salvo rare eccezioni, non dicono niente. Qui invece qualcosa si dice: di Marco Minniti, di Michele Emiliano, di certi magistrati ovviamente, di Matteo Salvini, di Massimo D’Alema. Sarebbe interessante mettere a confronto i protagonisti di questa storia, che poi è la storia recente del Paese. I Servizi segreti fanno da padroni, certo, e perché non andare a vedere cosa succede da quelle parti.

Mi è venuta incontro a un certo punto una massima di Andreotti: “La sindrome del beneficiario rancoroso”. Andreotti è stato un demone, nella politica italiana, ma non gli si può negare abilità nel destreggiarsi nella realtà. E’ una sindrome diffusa: fai del bene, dai – amore, per esempio: mica solo potere – e diventi colpevole di aver dato. Devi essere cancellato, eliminato. “Può esserti riconoscente solo chi avrebbe raggiunto la sua meta anche senza di te”, mi disse una volta un filosofo. Ci penso tanto.

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Il beneficiario rancoroso

 
Matteo Renzi con Domenico Minniti, detto  Marco, che con lui presidente del consiglio fu sottosegretario della Presidenza del consiglio con delega  all'Autorità delegata per la Sicurezza della Repubblica

Matteo Renzi con Domenico Minniti, detto Marco, che con lui premier fu sottosegretario della Presidenza del consiglio

Ho letto il libro di Matteo Renzi e sono rimasta colpita, da frequentatrice di lungo corso della politica italiana, soprattutto dal modo esplicito con cui indica le persone di cui parla. Un’assenza assoluta di prudenza – caratteristica fondamentale dell’agire politico – che mi ha fatto tornare in mente lo striscione della gloriosa stagione del Teatro Valle Occupato: “Com’è triste la prudenza”, diceva. E’ triste. E’ triste che di quel teatro non si parli più, sembrava ed era una grande battaglia di cultura e democrazia, ma costa troppo, si vede, scoperchiare certi tombini sigillati – indicare le antiche responsabilità e assumersene di nuove.

Certamente quella di Renzi è una veemente autodifesa, è la sua versione dei fatti: tuttavia, ripeto, ho letto nei decenni decine di libri di leader politici. Salvo rare eccezioni, non dicono niente. Qui invece qualcosa si dice: di Marco Minniti, di Michele Emiliano, di certi magistrati ovviamente, di Matteo Salvini, di Massimo D’Alema. Sarebbe interessante mettere a confronto i protagonisti di questa storia, che poi è la storia recente del Paese. I Servizi segreti fanno da padroni, certo, e perché non andare a vedere cosa succede da quelle parti.

Mi è venuta incontro a un certo punto una massima di Andreotti: “La sindrome del beneficiario rancoroso”. Andreotti è stato un demone, nella politica italiana, ma non gli si può negare abilità nel destreggiarsi nella realtà. E’ una sindrome diffusa: fai del bene, dai – amore, per esempio: mica solo potere – e diventi colpevole di aver dato. Devi essere cancellato, eliminato. “Può esserti riconoscente solo chi avrebbe raggiunto la sua meta anche senza di te”, mi disse una volta un filosofo. Ci penso tanto.

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Chissà dove vanno le parole non dette

 
 
 

E le relazioni non curate…

Chissà che ne è delle parole non dette. Chissà dove vanno a finire le frasi omesse, le comunicazioni mancate, cioè le cose non “messe in comune”, giacché comunicare ha questa bella etimologia. Chissà se certi silenzi sono solo assenza di parole o anche terrificanti oblii di volti e di contatti.

Mi riferisco soprattutto alle parole digitate, nella pretesa che una condivisione social sia comunicazione autentica. E non si tratta di demonizzare nulla, né di screditare le immense opportunità della rete. È solo che non possiamo pretendere di sostituire i dialoghi, né di aggirare la responsabilità della comunicazione non verbale ad essi annessa. Sì, comunicare parlando significa farsi carico di toni di voce, sguardi, gesti, posture, che traducono e tradiscono emozioni, sentimenti, intenzioni, pareri. Tutte cose che la digitazione ci risparmia. Una spontaneità in grado di abbassare le maschere e di ridurre i tempi della riflessione diplomatica. Una trasparenza che disarma e ci mette di fronte alla crisi della critica, al fenomeno dell’opinione diversa, al dogma della sua non conversione forzata.

Forse è per questo che parliamo di meno e digitiamo di più: abbiamo sete di accettazione assoluta e scambiamo il confronto, il parere contrario, il consiglio scomodo con una dichiarazione di guerra. Digitare un messaggio e pubblicare contenuti vari è dire senza parlare, affermare solo per confermarsi, lanciare messaggi senza la fatica di affrontare un volto o una voce, guadagnarsi il like o la visualizzazione tranquillizzanti, convincersi di aver adempiuto i doveri minimi di una relazione.

Ci sono cose, però, che vanno dette, semplicemente dette. Messe in comune nella forma più bella e più antica. Condivise corpo a corpo. Le cose importanti non possono essere solo digitate soprattutto se, quando poi si è in presenza, non si riesce a comunicare come si deve, si trasuda imbarazzo, si trasmette nervosismo, si fatica ad essere veri, sinceri, si omettono dettagli importanti.

Pretendere che un messaggio sia idoneo a consolare un lutto, che una catena di “buongiornissimi” sia prova di attenzione, che un post su un evento importante della propria vita obblighi l’altro a considerarsi informato, dunque a reagire, che un proclama su facebook basti a chiarire, precisare, farsi valere, estorcere le ragioni che un bizzarro accenno di confronto non ha saputo conferire…è pretendere troppo.

Le relazioni hanno doveri minimi. La comunione comporta la comunicazione matura, aperta e spassionata. Occorre tornare a parlarsi, reggendo lo sguardo e decifrando la gestualità, senza cedere alla tentazione di affidare tutto a una manciata di digitazioni ben pensate.

Che la vita ci dia sempre l’opportunità di essere in tempo per dire, per comunicare ciò che ci portiamo dentro. Perché forse non c’è peggior rimorso dell’ “avrei potuto dire, avrei dovuto parlare”. Com’era quel film? Ah, sì: “Le parole che non ti ho detto”.


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L’importanza della parola

 
 
 

«Degno è che, dov’è l’un, l’altro s’induca: 
sì che, com’elli ad una militaro, 
così la gloria loro insieme luca»

(Paradiso XII, vv.34-36)

La vita a volte ci manda dei segni, oserei dire che ci parla, solo che noi siamo attenti ad ascoltarla. Mi capitava, giorni fa, di parlare pubblicamente dell’importanza di spendere parole di luce, parole che facciano la differenza tra il giorno e la notte, piuttosto che urlare ottusamente il buio, ed ecco che ora mi tocca scrivere di san Domenico, che è il protagonista del dodicesimo canto del Paradiso, ma anche il fondatore dell’Ordo Predicatorum, l’Ordine dei Predicatori, i domenicani.

Non si deve sottovalutare, io credo, il chiasmo voluto da Dante tra il canto che precede e quello che ora leggiamo: lì, un domenicano, san Tommaso d’Aquino, prima celebra san Francesco e il suo matrimonio con Madonna Povertà, poi attacca i domenicani che non seguono l’esempio del proprio fondatore; qui, un francescano, san Bonaventura da Bagnoregio, tesse le lodi di san Domenico, canta il suo matrimonio con donna Fede e chiude fustigando quei francescani che, o per eccesso di zelo o per lassismo, tendono rispettivamente a inasprire o ammorbidire la regola francescana, tradendo in un caso e nell’altro l’intento del poverello d’Assisi.

Bonaventura parla animato da ardore di carità e ci racconta la vita di un santo, Domenico, che ha fatto della parola la sua missione: ed è proprio su questo punto che vorrei invitarti a soffermarti per un momento.

È come se Dante, che di questa narrazione è autore e regista, ci volesse dire: «State attenti, fate bene ad ammirare l’eroismo di San Francesco, la sua coerenza, lo slancio con cui si è unito a Madonna Povertà, ma san Domenico non è da meno…».

Sì, ne sono convinto. Non è da meno sposare la propria vita con la Parola. Cercarla, amarla, esserne assetato, provare in tutti i modi a comprenderla, accoglierla, ascoltarla, ruminarla, metabolizzarla, sentirne il dolce in bocca e l’amaro nelle viscere e, infine, se possibile, in infinità umiltà e gratitudine, restituirla.

Perché le parole vengono a noi per arrivare agli altri. In una sorta di cerchio della vita che ci chiama all’esistenza e ci pone nella condizione di trasmettere ciò che ci è stato donato.

Quale meraviglia e quale responsabilità. Già. Perché le parole possono essere lame o carezze. Pugnalare o generare. Dividere o moltiplicare.

Sono importanti le parole. In certi momenti, si mutano in Parola. E questa può fare davvero la differenza.

Buddha: «Le parole hanno il potere di distruggere e di creare. Quando le parole sono sia vere che gentili possono cambiare il mondo».

Jack Kerouac: «Un giorno troverò le parole giuste, e saranno semplici».

Martin Luther King: «Alla fine, non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei nostri amici».

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(Leggo)

...stava presso la croce di Gesù sua madre...Gv 19,25-34

 

Sappiamo la forza di questa donna che da sempre ha impressionato i discepoli, dall'annunciazione, alle nozze di Cana, al "...mia madre è chi fa la volontà del Padre mio"...e adesso sotto la croce...e ieri nella Pentecoste con i discepoli...non poteva non essere considerata madre di tutti noi!

(Prego)

O Signore,
fa’ che la tua Chiesa,
con l’aiuto materno della Vergine Maria,
porti a tutti i popoli l’annuncio del Vangelo
e attiri sul mondo l’effusione del tuo Spirito.

(Agisco)

Che anche io sia materno/a nel diffondere la gioia del vangelo.

 

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Il vero merito di Sheryl Sandberg

di Riccardo Luna
 

Il vero merito di Sheryl Sandberg

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All’improvviso Sheryl Sandberg ha lasciato Facebook. Quando ho letto il suo post ho provato la sensazione che avvertiamo quando arriva la notizia che qualcuno, un tempo famoso, ma sparito dalle scene da moltissimo tempo, è deceduto. Era ancora vivo? Sheryl Sandberg era ancora il braccio destro di Mark Zuckerberg? Era da un po’ che era sparita. Eppure sulla carta era sempre il direttore generale, il capo di tutte le operazioni di un gruppo che da qualche mese chiamiamo Meta, da quando il capo ha deciso che il metaverso è l’obiettivo, anzi la meta, verso cui andare.

Se parliamo di Sheryl Sandberg oggi è perché è stata l’artefice del successo di Facebook, la persona che ha spiegato a Zuckerberg come trasformare un social che all’inizio ti chiedeva solo di creare una rete di amici (Aggiungi come amico era il pulsante fondamentale) in una macchina per fare soldi (registrando ogni nostra scelta e profilandoci, per venderci meglio agli inserzionisti pubblicitari). Ma se ne parliamo è anche perché a un certo punto della sua vita e della sua carriera, Sheryl Sandberg è diventata una leader, la paladina di un nuovo femminismo.

Accadde all’improvviso, l’8 dicembre 2010, a Washington, quando la Sandberg tenne un famoso discorso, un TED, come vengono chiamati quei discorsi di una quindicina minuti in cui chi parla prova a emozionarci con un'idea o una storia che cambiano il mondo. In quel caso la storia era quella delle donne e del lavoro, di come sul lavoro le donne sono penalizzate sempre. Per colpa degli uomini, ma anche perché non si fanno abbastanza avanti.

Quel giorno la Sandberg citò alcuni dati. Sono passati 12 anni e quei dati sono cambiati: le donne capo di Stato erano 9 e adesso sono 29; quelle presenti in Parlamento erano 13 su 100 e ora sono 25; quelle che guidano grandi aziende erano il 15% e ora sono il ventitre. La strada è ancora lunga, ma il vento è cambiato.

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Qual è il momento in cui non servi più

Il filosofo Gianni Vattimo con il suo assistente Simone Caminada

Il filosofo Gianni Vattimo con il suo assistente Simone Caminada

Le cronache e le immagini della tristissima conferenza stampa domestica di Gianni Vattimo, maestro del pensiero, hanno qualcosa che addolora e qualcosa che ci riguarda. Ci sono tutti gli ingredienti per servire fumante la pietanza del pregiudizio. Il grande filosofo, 86 anni, molto malato, vive con Simone Caminada, di cinquant’anni più giovane, 36, scuro di pelle e brasiliano di origine: Vattimo lo ha nominato suo erede. Caminada, formalmente suo assistente, dice: “Siamo una famiglia”.

Il sospetto, poi vicenda giudiziaria, è che il più giovane si stia approfittando del più vecchio. Circonvenzione di incapace, in termini di legge. Ma la Cassazione conferma che Vattimo “conserva indiscusse capacità cognitive e di memoria”: ha deciso così, è libero di farlo. “Mi fido di lui, abbastanza”. Qui perché è Vattimo, e la vicenda ha risonanza, ma le vite di ciascuno sono piene di storie di prime mogli e figli e lontani cugini che rivendicano, di vecchi lasciati soli per decenni, in punto di morte l’eredità del sangue: chi sarebbe mai questo/a, badante o assistente o ultimo fantasma di desiderio che pretende diritti solo per essersi insediato in casa una ventina d’anni, o dieci.

Poi però, bisogna mettersi nei panni di chi resta accanto a un vecchio solo mentre i consanguinei, appunto, se ne guardano bene. Lo fa per interesse? Chi lo sa. Invece non è per interesse che i parenti chiedono la revoca? Non è per interesse che molte unioni, fra coetanei,  sopravvivono? Non è un Paese per vecchi, questo. Di chi resta ad accompagnarti al bagno, a consolarti quando piangi – penso – bisogna avere rispetto e domandarci, semmai, qual è il momento della vita in cui non servi più e perché, in nome di cosa.

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La classe dirigente

di Gabriele Romagnoli
 

La classe dirigente

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La prima cosa bella di venerdì 3 giugno 2022 è la classe dirigente, quella che sa fare. Forse era nella mia classe, ma dove è finita? Perché non è andata nei posti di comando?

Me lo chiedo spesso. Ho visto arrivarci quelli che erano di sinistra. Poi quelli che erano di destra. Sto ancora aspettando quelli che erano bravi. Si sono persi, si sono scoraggiati. Credo, proprio quando hanno capito che contava più l'affiliazione del merito. Quando si sono accorti che le chiamate avvenivano per cognome e non per nome. L'appello in nome del padre. Sono andati a fare altro, nel sottobosco e li ha stremati l'insoddisfazione.

Viviamo in questo Paese qui, nessuno si chiede chi sarà la classe dirigente. Entra in cabina, vota, esce, crede di aver fatto una scelta. In base a un leader. Ti piace la Meloni? Non sto nemmeno a discutere, ma ti sei chiesto chi ha intorno, da mettere nei posti chiave? I Neri per caso? Pensi mai alla fatica che stanno facendo i funzionari della Farnesina?

Alle prossime elezioni voterei per il partito del deep state, però ci mettano quelli della mia classe, quelli bravi.  

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