Profilo BACHECA 192
"La sinfonia è un'epopea musicale. Si potrebbe dire che è come un viaggio che ci porta, attraverso l'infinitezza del mondo esteriore, da una cosa a un'altra, sempre più lontano. Anche le variazioni sono un viaggio. Ma questo viaggio non ci porta attraverso l'infinitezza del mondo esteriore. Certamente conoscete quel pensiero di Pascal che dice che l'uomo vive tra l'abisso dell'infinitamente grande e l'abisso dell'infinitamente piccolo. Il viaggio delle variazioni ci porta dentro quest'altro infinito, nell'infinita varietà del mondo interiore, che si cela in ogni cosa. Nelle variazioni Beethoven ha scoperto dunque un altro spazio da esplorare. Le sue variazioni sono in questo senso un nuovo invito al viaggio. La forma delle variazioni è la forma della massima concentrazione ed essa consente al compositore di parlare solo delle cose in sé, di giungere dritto al nocciolo. Materia delle variazioni è un tema che spesso non eccede le sedici misure. Beethoven va al di dentro di queste sedici misure come se scendesse in un pozzo giù all'interno della terra. Il viaggio nell'altro infinito non è meno avventuroso del viaggio dell'epopea. Allo stesso modo il fisico penetra nelle prodigiose viscere dell'atomo. A ogni variazione Beethoven si allontana un pò di più dal tema iniziale, che non assomiglia all'ultima variazione più di quanto il fiore assomigli alla sua immagine vista dal microscopio. L'uomo sa di non poter abbracciare l'intero universo, con i suoi soli e le sue stelle. E' ben più insopportabile per lui farsi sfuggire l'altro infinito, quello vicino, a portata di mano. Tamina si è lasciata sfuggire l'infinito del suo amore, io mi sono lasciato sfuggire mio padre e ciascuno di noi si è lasciato sfuggire la propria opera, perché inseguendo la perfezione dentro le cose e là non si riesce mai ad arrivare sino in fondo. Accettiamo come una condizione naturale di esserci lasciati sfuggire l'infinito del mondo esteriore. Ma ci rimproveriamo fino alla morte di aver mancato l'altro infinito. Pensavamo all'infinito delle stelle, e non ci curavamo dell'infinito che nostro padre portava dentro di sé. Non c'è nulla di sorprendente nel fatto che, durante la sua maturità, le variazioni siano diventate la forma preferita di Beethoven, il quale sapeva benissimo (come lo sa Tamina e come lo so io) che niente è più intollerabile che farsi sfuggire l'essere che abbiamo amato, quelle sedici misure e l'universo interiore delle loro possibilità infinite."
Milan Kundera - Il libro del riso e dell'oblio
Il luogo aveva un nome morbido: Downey. Suggeriva la sensazione di morbidi capelli, su morbide pelli. Ma Downey non era come il suo nome. Era simmetrica, ordinata, monotona. Le case non si distinguevano una dall'altra, e garage aperti mostravano cose che una volta si nascondevano nelle soffitte: biciclette rotte, vecchi giornali, vecchi bauli, bottiglie vuote. La donna che si trovava nello spiazzo vuoto aveva nascosto le sue forme femminili in larghi pantaloni e un ampio maglione. Ma aveva una capigliatura bionda rotonda e gonfia come quella di una bambola. Era immobile e divenne, per un momento, parte della natura morta fino a quando un macchinone arrivò e gli amici la salutarono e si fermarono. Li raggiunse di corsa e li aiutò ad aprire il bagagliaio e a scaricare quadri e cavalletti che portarono nello spiazzo vuoto. Poi la donna in pantaloni divenne intensamente attiva, collocando e spostando i quadri in un angolo dove il sole li avrebbe illuminati invece che consumati. I quadri erano tutti in netto contrasto con i colori tenui di Downey. Profondi blu notturni e verdi e viola, tutti i toni vellutati della notte. Le automobili cominciarono a fermarsi e la gente venne a guardare.
Uno spettatore disse: 'Questi alberi non hanno ombra'.
Un altro disse: 'I volti non hanno rughe. Non sembrano veri.'
La folla che si era raccolta era la stessa che veniva in questo spiazzo vuoto a Natale per comperare gli alberi di Natale, o d'estate a comperare le fragole degli ortolani giapponesi.
'Non ho mai visto un mare come questo', disse un altro spettatore.
La donna in pantaloni rise, e disse: 'Un quadro deve portarvi dove non siete mai stati. Chi è che vuole guardare sempre lo stesso albero, lo stesso mare, lo stesso volto ogni giorno, lo vorrebbe lei?'.
Ma quello era proprio ciò che gli abitanti di Downey volevano fare. Non volevano sradicarsi. Cercavano dei duplicati di Downey, un ritratto della loro nonna, e dei loro figli. La pittrice rise. La sua risata li conquistò. Si avventurarono a comperare alcuni dei quadri più piccoli, come se in una misura minuta potessero essere meno pericolosi, e non rischiassero di cambiare il clima del loro soggiorno.
'Io vi aiuto a distinguere la vostra casa da quella dei vicini', disse la pittrice.
Non c'era vento. Negli intervalli fra un gruppo di spettatori e un altro, la pittrice e i suoi amici sedevano su degli sgabelli a fumare e chiacchierare. Ma una folata di vento inaspettata e solitaria sollevò un ciuffo dei capelli biondi dal viso della pittrice e rivelò un ciuffo di capelli neri sotto la rete della parrucca. Ma nessuno se ne accorse né commentò. La luce diminuiva. La pittrice e i suoi amici raccolsero i quadri rimasti e se ne andarono. Di ritorno alla casa sul mare, la pittrice mise i quadri appoggiati al muro. Andò in camera da letto. Quando ne uscì, la parrucca non c'era più, i lunghi capelli neri le ricadevano sulle spalle, e lei portava un vestito messicano di tutti i tenui colori dell'arcobaleno. Era Renate. La parrucca bionda giaceva sul letto con i pantaloni e il grande maglione. E ora voleva che anche i quadri tornassero a rappresentare la sua arte, la qual cosa significava restituire a lor le fantasmagoriche figure dei suoi sogni notturni. I semplici paesaggi, le semplici marine, le semplici figure vennero tutti trasformati in quel che erano prima della mostra a Downey. Le figure fluttavano, diventavano campane, le campane suonavano sull'oceano, gli alberi ondeggiavano in cadenza, la sinuosità delle nuvole assomigliava alle sciarpe di donne arabe o indù, velanti le tempeste. Animali mai visti, discendenti dagli unicorni, offrivano la testa per essere catturati. La pazienza vegetativa dei fiori era dipinta come un gruppo di suore cinquettanti, ed erano gli animali che avevano lo sguardo da indovini mentre gli occhi delle persone sembravano di stalattite. Esplosioni del mito, garrule strade, debosciati venti, umori oracolari di sabbie, stasi di rocce, attriti di pietre, acerosità di foglie, escrescenze di ore, donne sibilline con capacità di osmosi, adolescenza simile al cactus, corrugamenti della vecchiaia, lacerazioni d'amore, persone che cercavano di vivere in due con un cuore solo, gemelli inseparabili. Lei restituiva ai paesaggi vuoti le figure mitologiche dei sogni, pensando alle parole con cui Rousseau aveva risposto alla domanda: 'Perché ha dipinto un divano in mezzo alla giungla?'. Aveva detto: 'Perché si ha il diritto di dipingere i propri sogni'. "
Anais Nin - Collages, o delle trasmutazioni
Il giovane la guarda negli occhi, l'ascolta, poi le dice che ciò che lei chiama ricordare è, in realtà, un'altra cosa: guarda solo il suo dimenticare, affatturata. Tamina approva.
E il giovane prosegue: Lo sguardo triste che lei volge indietro non è più espressione della sua fedeltà a un morto. Il morto è scomparso dal suo campo visivo, e cio che lei sta fissando è il suo vuoto.
Il vuoto? Ma perché, allora, il suo sguardo è così pesante?
Non è pesante per i ricordi, spiega il giovane, ma per i rimorsi. Tamina non perdonerà mai a se stessa di aver dimenticato.
"E cosa devo fare allora?" chiede Tamina.
"Dimenticare il suo oblio" dice il giovane.
Tamina sorride amaramente: "Mi spieghi come si fa."
"Non ha mai avuto voglia di partire?"
"Si" confessa Tamina. "Ho una voglia terribile di partire. Ma per dove?"
'Per un posto dove le cose sono leggere come una brezza. Dove le cose hanno perso il loro peso. Dove non esiste il rimorso."
"Si" dice Tamina con aria sognante. "Andarsene dove le cose non pesano niente".
Milan Kundera - Il libro del riso e dell'oblio.
"La contemplazione del cielo notturno che ispirerà a Leopardi i suoi versi più belli non era solo un motivo lirico; quando parlava della luna Leopardi sapeva esattamente di cosa parlava. Leopardi, nel suo ininterrotto ragionamento sull’insostenibile peso del vivere, dà alla felicità irraggiungibile immagini di leggerezza: gli uccelli, una voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell’aria, e soprattutto la luna. La luna, appena s’affaccia nei versi dei poeti, ha avuto sempre il potere di comunicare una sensazione di levità, di sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo. In un primo momento volevo dedicare questa conferenza tutta alla luna: seguire le apparizioni della luna nelle letterature d’ogni tempo e paese. Poi ho deciso che la luna andava lasciata tutta a Leopardi. Perché il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare. Le numerose apparizioni della luna nelle sue poesie occupano pochi versi ma bastano a illuminare tutto il componimento di quella luce o a proiettarvi l’ombra della sua assenza."
Italo Calvino - Lezioni americane - Conferenza sulla Leggerezza