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Il conte cavaliere

 
 
 

Ho incontrato il Conte Onofrio Spagnoletti Zeuli nella sua tenuta di San Domenico contornata da filari immensi di uva e rose rosse e bianche come i suoi vini. Immerso nel suo studio fatto di libri e targhe e storia viva l’ho ascoltato mentre la persona e il personaggio si fondevano.

Imprenditore, politico, agricoltore, ciò che ha fatto è ben noto. Mi dice cosa avrebbe voluto fare?

Sono stato politico prestato alla politica per soli due anni dopo tangentopoli  accettando l’invito di Tatarella. In realtà sono un imprenditore contento di esserlo. Amo la mia terra, ho scelto di vivere in campagna di conseguenza. Avrei potuto suonare, avrei potuto continuare con l’equitazione agonistica ma ho risposto alla chiamata di mio padre che mi voleva in terra di Puglia e  posso dire di aver fatto bene.

Ha visto negli anni la tecnologia trasformare le colture. Penso nella fattoria di Orwell dove gli animali scacciano gli uomini. Dove stiamo andando? Pioverà a comando un giorno? Chi o cosa raccoglierà le olive?

Guardi io ho cominciato con l’aratro tirato dal mulo e contadini chini e sacchi di iuta. La paura che la tecnologia stravolgesse tutto ha sempre seminato panico. E invece a breve vedrò, ne sono certo, trattori senza guidatori e i satelliti e i droni mapperanno gli appezzamenti  per stabilire le condizioni e le concimazioni. Piuttosto che temere il progresso spero che i giovani tornino a questo lavoro stupendo. Lavoro che oggi  è fatto di tanto, di tecnologia e sfide sempre nuove e il tutto all’aria sana di campagna.

Su una targa di un suo albero ho letto che il vino è l’anima della poesia. Chi declama nei suoi vini?

Tutte le persone che si adoperano perché sia un ottimo prodotto. Eco sostenibilità, rispetto dell’ambiente è vero ma ancora dipendiamo spesso da fornitori esteri e andiamo in panico se scarseggia una fonte di energia.  Abbiamo invece un patrimonio ricchissimo assolutamente da valorizzare e il momento è proficuo anche per auto fornirci.

Mi dice com’è essere il Conte Spagnoletti  Zeuli?

Più che a me penso con orgoglio al mio casato che tanto ha dato e ha ricevuto dalla città di Andria. Con la riforma Mussolini e la riforma fondiaria abbiamo ceduto terreni. Ricordo quando nel 1945 siamo fuggiti dal palazzo di notte. Tanta storia. Adesso sono Cavaliere del lavoro per mano del Presidente della Repubblica Napolitano. E questo mi onora.

Mi lasci con un’immagine. È sera, cosa versa nel suo calice?

Cambio spesso. Questo è momento di un buon rosato fresco. Il 23 settembre, nome dell’ultimo nostro imbottigliato, uva di troia in purezza, premiato a Bruxelles, va benissimo con un camino acceso.

Ho salutato il Conte dicendogli che mio padre, non facendo più da sé il vino, compra solo il suo. Ha sorriso fiero che i riscontri di chi la campagna la vive da sempre sono i più ostici ma pure i più veri.  Figlio del sud, consapevole che la terra è la vera ricchezza. Che se ci sono frutti in agricoltura, gira il commercio e tutto si evolve.  Il Conte è un giovanotto con gli occhi al futuro. Dove gli allevamenti dovrebbero essere incentivati, perché  gli animali completano le molteplici colture che tutto il mondo ci invidia. La nostra fantastica biodiversità!  Dove tanto c’è da fare per vivere di turismo e mostrare un territorio  ancora intonso.

Ho seguito il filare di cipressi e  i pumi rossi come frutti rossi  e  sono uscita a malincuore da quell’oasi di pace. Adesso anche il mio calice si riempirà meglio.  Ed è un inno assoluto alla bellezza della nostra terra e a chi la ama incondizionatamente!

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Barletta. “Gli occhi innocenti dei bambini, increduli per un mondo in macerie”

 
 
 

Uno struggente dipinto contro la guerra

È notte, fonda. Blu di Prussia, il cielo. Remoti, i puntini evanescenti, baluginanti. Apparentemente vicini, lontanissimi, anni luce. Innumerevoli. In uno spazio infinito. La luna, pallida nel suo chiarore diafano, incede lentamente, volgendo il dorso a ponente. Il silenzio della notte domina sovrano.

A letto, nella sua stanza, in colloquio con sé stesso. “Nel buio due occhi lo fissano, lo scrutano, lo interrogano. Sono gli occhi della sua coscienza”, direbbe Antonio de Curtis, in arte “Totò”. Ripercorre serenamente i momenti salienti della giornata, si organizza con la mente e il cuore per l’indomani. Visione panoramica e cura di ogni minimo dettaglio, attenzione alle luci ed alle ombre, alle sfumature, ai riflessi nell’arte e… nella vita, con la tensione costante nell’essere sé stesso. Libero. Creatore di una nuova realtà.

Faticoso l’impegno nel suo laboratorio artistico, nei pressi della Cattedrale, di fronte alla ripida scalinata della Chiesa di Sant’Andrea. Vissuto, però, con la levità di una libellula, con gioia ed entusiasmo. La vita diventa un’avventura. Vibrante!  Per sé e gli altri. Affascinante.

Un lungo tavolo, in un locale antico, pennelli, spatole, colori di ogni tipo, stucco plastico, tovaglioli, cavalletti, tele bianche, dipinti, tanti, alle pareti. Libri di pittura ed artisti, del mondo classico, del Rinascimento, dell’Impressionismo, dell’oggi. Taralli, arance, albicocche, ciliegie, immancabili per gli ospiti. Valore aggiunto, tanto calore umano.

Puntati su di lui, gli occhi di chi vuole imparare. Rapiti, con le orecchie tese, la bocca socchiusa, quando, intingendo il pennello, propone ritocchi. Se il messaggio non arriva, se l’allievo non sorride di compiacimento, lui, che conosce il linguaggio del corpo, riparte con maggiore ardore. Riposizionando gli occhiali, penduli, tira dal cappello fatato altre strategie espositive fino a quando lo sguardo s’illumina. Insomma, un mostro di didattica e pedagogia.

Un foglio di carta, una tavola, una tela bianca attende sul cavalletto. I colori, le forme, i volumi pian piano prendono corpo, diventando volti solari o angosciati, alberi e arbusti rigogliosi o rachitici, mari agitati o sereni, cieli sfolgoranti o languidi, paesaggi mozzafiato, giraffe, cavalli, cani, ricchi di umanità. Espressivi, armonici. Una meraviglia! Gli autori guardano con incredulità i loro dipinti. Non avrebbero mai immaginato di avere talenti artistici. Tutti. L’autostima, tanto vilipesa dalle agenzie educative e dalla società del consumo, cresce.

Volano le ore con lui, col maestro, Giacomo Borraccino, in arte “Borgiac”, grembiule bianco, adornato da macchie e striature di acrilici, colori a olio, acquerelli, scribacchiato. Sulla schiena, in una nuvoletta, una mano anonima annota “Ti vogliamo bene.” Più in alto in dialetto, “Stai combinato male!” In basso con una grafia infantile si staglia, un cuore grande.

Ama appassionatamente la città natia, la terra degli avi, in cui vivono le persone più care. La vuole più bella, più buona, più giusta, dignitosa, più verde. Per lei, perciò, mette a disposizione il suo talento artistico di pittore.

Innumerevoli i suoi capolavori urbani che adornano la città di Giuseppe De Nittis, Geremia Di Scanno, Gian Battista Calò, Vincenzo De Stefano, Paolo Ricci, Maria Picardi Coliac. Lungo la litoranea di ponente, in prossimità del porto marittimo, rifulge, l’ultima sua creazione donata alla collettività, un dipinto che condanna la guerra con gli occhi struggenti di un bambino, un figlio dei nostri.

Alla domanda “Chi sono io?” la sua anima, sorridendo, sussurra timidamente:

“Io sono un uomo antico

che ha letto i classici

che ha raccolto l’uva nella

vigna, che ha contemplato

il sorgere o il calar del sole

sui campi.

Non so quindi cosa farmene

di un Mondo creato, con la

violenza, dalla necessità

della produzione e del consumo.

Detesto tutto di esso: la

fretta. Il frastuono, la

volgarità, l’arrivismo.

Sono un uomo che

preferisce perdere piuttosto

che vincere con modi sleali

e spietati”.

“L’autoritratto di Pier Paolo Pasolini mi calza a pennello”, precisa.

Pausa. Poi, dalla profondità del suo essere, dai meandri del suo cuore, straziato, la vocina riprende a profferire. “La guerra! Surrettiziamente, subdolamente i mass media la raccontano come se fosse solo una, quella a due passi da noi, tra Russia e Ucraina. Come se fossimo ciechi, come se avessimo svenduto cuore e cervello all’ammasso! Ce ne sono, invece, 160 in tutto il mondo. Incalcolabile, quindi, il numero delle persone che piangono e muoiono ogni giorno! Dei manufatti distrutti! Delle ferite inferte ala Terra!

Pablo Picasso detestava visceralmente la guerra. Nel 1937 dipinse Guernica, un quadro che esprime orrore. Un dipinto politico. La pittura, ogni forma artistica, è anche politica, quella che sente palpitare i cuori di tutti gli esseri viventi e di quelli considerati abiotici. Quella che, convibrando, lambisce vette ardite. Non può, non deve rinchiudersi in una torre eburnea. L’etica le impone di coinvolgersi nella realtà, nella quotidianità, mirando al bene comune.

Anch’io, pittore, esco allo scoperto, rivolgendomi all’umanità intera. Perché si interroghi! Voglio accendere un sogno in me, negli altri. Come fece il grande pittore spagnolo. Entrare in connessione con me stesso, con il territorio in un rapporto di confronto, di amore per il recupero del senso della comunità, che si fonda sul valore della solidarietà.

Un gesto di liberalità, il mio. Puro. Costruttivo, creativo. Come quello di una mamma verso la creatura che amorevolmente porta in grembo per nove mesi, di un neonato nei confronti della persona che si prende cura di lui, allattandolo, accudendolo, lavandolo, nutrendolo, accarezzandolo, abbracciandolo, baciandolo, cullandolo, sorridendogli. Questo è lo spirito del mio dipinto, realizzato su un pannello fatto di cascami di trucioli incollati. Nessuno deve strumentalizzato!

L’arte, quella pittorica, essenza della mia vita, non ha il cuore di pietra, non rimane indifferente davanti agli scempi, alle efferatezze ordite e perpetrate da uomini e donne contro i loro simili, verso tutti gli esseri che zampettano, respirano, strisciano, volano, nuotano, verso tutte le forme di esistenza e bellezza.

Io mi schiero. La pittura, compagna della mia vita, espressione della bellezza e sua interprete, non resta indifferente, parteggia. Fa una scelta di campo, non privilegia, però, etnie, professioni, età, colori della pelle, lingue parlate, i costumi. Opta per la vita, per tutte le sue significative manifestazioni. Convibra con tutte le presenze del pianeta azzurro, delle galassie, dell’universo intero.

Questo è il senso vero del dipinto che guarda il mare, le sue biancheggianti onde, osserva il cielo nella fantasmagoria dei suoi colori, riflette con tutte le persone di buona volontà sulle sciagure che noi, esseri umani, infliggiamo, privatamente e socialmente, a noi stessi e agli altri.

Ho impiegato oltre un mese per capire, per studiare, per analizzare, per riflettere, per macerarmi sentimentalmente, per emozionarmi fino alle radici del mio essere, sul messaggio ideale, che come uomo, come pittore volevo esprimere, condannando la guerra, ogni conflitto.

Ho privilegiato il volto di un bambino, che indossa un copricapo ucraino. Non si identifica, però, il protagonista, con gli ucraini, rappresenta i pargoli di tutte le guerre di ieri e di oggi che insanguinano la Terra. Emblematico, il suo sguardo, la parte più espressiva dell’animo umano.

L’occhio, il suo occhio, manifesta angoscia, terrore, disappunto, disperazione e speranza. Profondo, intenso, il suo sguardo innocente su un mondo in macerie. Ha pianto, tanto, il piccino, vorrebbe, il più presto possibile, sorridere assieme ai coetanei, giocare, studiare, lavorare, amare, essere rispettato nella sua dignità di essere umano.

In alto, sulla sinistra, un cuore rattoppato. Solo l’amore di un altro cuore può lenirne le sofferenze, aiutarlo a guarire, a palpitare vividamente. ¿Non dovremmo tutti impegnarci in un processo di cambiamento, interiore ed esteriore, imparando a gestire le incomprensioni, i conflitti, in maniera pacifica, senza devastazioni e spargimento di sangue?”.

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Io non sono adatta a quest’epoca

 
 
 

«Il mondo ora contiene più fotografie che mattoni»
(John Szarkowski)

Siamo nell’epoca del commercio e delle immagini, fattene una ragione.

Tutto ruota intorno all’immagine.

Non c’è niente che funzioni meglio di un’immagine studiata a tavolino.

Guarda che nell’immagine devi essere tu.

Guarda che poi sembri in posa.

Guarda che devi guardare nell’obiettivo.

Guarda che non va bene farsi fotografare con gli occhiali da sole.

Per certe cose serve il fotografo professionista.

In effetti a molti piacerà moltissimo dare un volto a certe vicende.

No, ma tu sei cocciuta, invece ogni tanto devi calare la testa, ciò che si vede fa mercato.

Sei esasperante, nelle foto hai sempre gli occhiali da sole e ridi solo se sei con chi ami.

 

Va bene, abbiamo capito, avete tutti ragione, ma non considerate quello che un tempo sarei stata stanca di ripetere e che ora non ripeto più a nessuno, perché sono diventata refrattaria a tutto quanto risulti vano.

 

Io non sono adatta a questa epoca.

L’unica cosa che per me può ruotare intorno a qualcosa è la terra intorno al sole.

Le cose studiate a tavolino, a casa mia, sono fatte di lettere e numeri e se sono figure, sono quadri.

Io non so mettermi in posa.

Se mi si chiede di guardare un obiettivo, lo fulmino per principio e volontariamente.

Gli occhiali da sole servono a riparare gli occhi dai raggi ultravioletti e se ti stanno fotografando all’esterno e in quel momento, vale tutto!

Il fotografo professionista può andare a fare le campagne elettorali; e io detesto le campagne elettorali!

Quello a cui molti vogliono dare un volto è un problema di molti, non mio.

Io sono cocciuta, è vero. Ho imparato che devo dare ascolto a chi ne sa più di me, lo faccio. Ciò non significa che io non mi voglia prendere a schiaffi tutte le volte che devo andare contro la mia stessa natura, per ragioni che non staranno mai né in cielo e né in terra.

Sono esasperante, è vero anche questo: in foto ho sempre gli occhiali da sole e rido solo se ho un motivo che davvero mi stia facendo ridere. Sono io!!

 

Detto ciò, la verità è una ed una sola e potremmo addirittura farne titolo di un libro, ma un libro serio: l’utilità sessuale e commerciale dell’immagine e la sua inutilità naturale.

Vanità, vanità, tutto è vanità. Non c’è niente di nuovo sotto il sole. Una nota: questa non è Acca, questo è Qoelet. E Qoelet è parola del Signore.

Adesso sbrogliamola questa matassa, popolo di cristiani.

Amen.

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Cannabis, Mussolini e Cavour

 
Il libro del Post/Iperborea della collana "Coase spiegate bene"

Il libro del Post/Iperborea della collana "Coase spiegate bene"

Ho trovato figlio piccolo con un libro in mano, per la sorpresa gli ho chiesto “che fai, leggi?”. Si sa che non bisogna mai turbare un’attività solitaria né, del resto, fare a un adolescente domande idiote. Ha fatto sì con la testa. Ho riconosciuto dalla copertina il volume del Post/Iperborea intitolato “Le droghe, in sostanza”, collana Cose spiegate bene.

Qualche ora dopo è venuto lui da me. “Ma’, perché vi occupate solo di quello di cui non frega niente a nessuno, tipo tutto il tempo a parlare di politica, di Cinquestelle e Salvini, e mai di cose concrete? Lo sai tu quanta gente si fa di farmaci in America? E lo sai quanti soldi ci fanno le mafie con la cannabis?”. Lo so, ma hai visto: il referendum non è stato ammesso. “Eh, appunto”. Stabilito il flebile contatto con la lettura grazie alla presa dell’argomento ho rilanciato con “Legalizzala!” delle edizioni People, di Giuseppe Civati. Lo ha preso e lo ha messo accanto al vinile di Kendrick Lamar, gesto che ho interpretato come accogliente.

Poi ho trovato nel primo numero della rivista “Inedita” un servizio di Paolo Brogi sullo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, unico autorizzato in Italia alla coltivazione di cannabis terapeutica. Nel 2020 il fabbisogno è stato di una tonnellata, la produzione di circa 150 chili. Il resto si compra all’estero, mentre lo stesso soggetto – lo Stato – sequestra e distrugge coltivazioni in Puglia, Sicilia, Liguria: l’equivalente di milioni di euro. Il pezzo si chiude con una nota storica. Dice che Cavour coltivava cannabis nelle sue tenute, Mussolini dichiarò l’hashish “droga da negri”. L’ho raccontata a tavola: “Non per parlare di politica”, ho premesso. L’adolescente ha sorriso.

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Ministra Lamorgese, le presento Khaby Lame

Ministra Lamorgese, le presento Khaby Lame
Con 142 milioni e 400 mila follower ha sorpassato Charli D’Amelio
1 minuti di lettura
 

Da questa notte Tik Tok ha un nuovo re. Si chiama Khaby Lame e con 142 milioni e 400 mila follower ha sorpassato Charli D’Amelio. La cosa è interessante per un sacco di motivi. La prima è che Khaby Lame ha inventato un genere: nei suoi video non ha mai detto una parola, sono sketch brevi, divertenti, tutti giocati sulla mimica del viso e delle mani che spesso fanno un gesto, diventato iconico, come a dire “hai visto?”.

 

La seconda è che il personaggio social Khaby Lame è un figlio della pandemia, del fatto che con il primo lockdown la fabbrica alla porte di Torino dove lavorava lo licenziò e lui si mise a far video. Ma la terza ragione non è meno importante. Per tutti Khaby Lame è “il tiktoker italiano”: visto che è arrivato in Italia dal Senegal quando aveva un anno (ora ne ha 22 anni); visto che qui ha fatto tutti gli studi (non era un grande studente); visto che qui ha fatto mille lavoretti prima di diventare creator. Eppure non ha la cittadinanza. Ne parlammo un anno fa quando lo incontrammo; ai tempi era a quota 100 milioni di follower ed era già diventato una celebrità globale.

 

Sul tema allora lui preferiva non fare polemiche, era sicuro che tutto si sarebbe risolto. E invece siamo ancora qui: Khaby Lame non è cittadino italiano, non può avere il nostro passaporto e i nostri diritti. Forse il primato mondiale desterà da questo lungo sonno i responsabili del Viminale che hanno sul tavolo la sua pratica per ottenere la cittadinanza. Ma quanti ragazzi come Khaby Lame ci sono nel nostro paese? Quanti sono italiani a tutti gli effetti tranne il fatto che questo paese continua ad ignorarli? Possibile che non ci sia un partito che voglia fare questa battaglia politica per i diritti?

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Elvis in the building

Elvis in the building

La prima cosa bella del 24 giugno 2022

1 minuti di lettura
 
 

La prima cosa bella di venerdì 24 giugno 2022 è il barocco film di Baz Luhrmann su Elvis che rivela una verità su di lui: Elvis has never left the building. E non perché sia ancora vivo. Noi qui abbiamo di lui un'immagine un po' distorta: una musica lontana, troppi chili, chincaglieria, burro d'arachidi. Un'americanata. Perché se i Beatles sono andati negli Stati Uniti, Elvis invece non è mai venuto in Europa. E' rimasto quell'immagine.

Nel film si racconta come l'avidità del manager e l'ignavia del padre lo abbiano di fatto rinchiuso nell'hotel di Las Vegas dove ha continuato a esibirsi anno dopo anno per saldare debiti propri e altrui, scambiando la libertà con i barbiturici. Nella scena più forte rinuncia a partire, tira le tende e chiede altre pastiglie. Per convincere i fan a sfollare, ai suoi concerti annunciavano che aveva lasciato l'edificio, ma non l'ha mai fatto. E' stato prigioniero della propria storia, ha sostituito Kennedy con Nixon, l'America con il mondo. Per sempre nel ghetto. E solo, stanotte. 

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(Leggo)

«Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» Lc 2,41-51.

 

...e Maria non lo capì, provò angoscia e tristezza nel cercarlo. Figuriamoci noi ai primi passi nel cammino di fede verso di Lui!

 

(Prego)

O Dio, che dall'eternità hai scelto Maria come vaso eletto dei tuoi doni, fà che seguendo il suo esempio siamo sempre docili a cercare e a compiere la tua santa volontà. Per Cristo nostro Signore.

 

(Agisco)

Ritrovare o rinnovare il gusto della lettura della Parola di Dio.

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Morire di lavoro

 
 
 

Perché la Costituzione non sia un mero strumento di fine retorica

Ha colpito qualche giorno fa la notizia della morte di un 72enne del leccese, caduto da un’altezza di cinque metri mentre era impegnato nell’installazione di un montacarichi. La notizia, alquanto dolorosa e triste, fa montare maggiormente la rabbia, in virtù del fatto che l’operaio fosse un pensionato, costretto a dover lavorare, a causa della sua situazione economica indigente. In quella stessa giornata, sono morti in Italia altri tre operai che hanno accresciuto la quota annuale delle morti bianche. Morti di giovani, morti di pensionati, il nostro Paese non riesce a risolvere un problema che ogni anno fa un sacco di vittime e i numeri non sono mai una conta piacevole da passare in rassegna. Nel 2020, anno COVID, l’INAIL ha denunciato 1538 morti sul lavoro, nel 2021 le morti bianche sono state 1221 e nel 2022, a poco meno della metà di questo anno, siamo già oltre quota 500. A questi numeri vanno associati gli infortuni e un confronto può far capire l’emergenza della sicurezza sul lavoro: nel  primo bimestre 2022 le denunce per infortunio hanno rilevato un aumento del 50% rispetto allo stesso bimestre dell’anno precedente.

Di lavoro si muore, nonostante i proclami costituzionali e le innumerevoli leggi sulla sicurezza sul lavoro. Fatalità alle volte, incuria e disattenzione molto spesso. C’è una certa relazione delle morti bianche con il lavoro irregolare, quello che chiamiamo volgarmente “nero”, morti che alle volte non sono nemmeno tracciabili. Numeri che potrebbero assumere quindi proporzioni più grandi.

Qualcuno parla di “caduti sul lavoro”, analogamente a coloro che hanno perso la vita nei conflitti bellici, tornati di moda di recente. Fa pensare tale terminologia, alla luce delle stesse leggi costituzionali che hanno dichiarato lo Stato, “una Repubblica fondata sul lavoro”. I nostri padri costituenti non hanno certo giocato di malizia. Erano anni in cui il lavoro era al centro della vita del Paese, forse anche con tinte troppo ideologiche, ma pur sempre considerato come motore trainante dello Stato democratico. Mai avrebbero dovuto pensare di fare dei distinguo tra lavoro regolare e lavoro irregolare. Ma la loro lungimiranza non aveva certo dimenticato che lo Stato avrebbe “curato la formazione e l’elevazione personale, promosso e favorito gli accordi” (art. 36) e che ci sarebbe stata la parità di retribuzione tra uomini e donne (art.37). Si potrebbe parlare degli articoli 36, in riferimento alla giusta retribuzione e, nel caso particolare del povero operaio di Lecce, dell’articolo 38 che nella fattispecie ricorda: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.

Anche tutta la legislazione, compresa quella comunitaria, successiva alla Costituzione, è volta a dare massima dignità al lavoro e alla sua sicurezza.

Ed eccoci qui di nuovo a doverne fare un astratto riferimento, a dover ricordare la conta quotidiana di morti e feriti che ci lasciano la pelle, proprio come in una guerra. Perché, alle volte, è paradossale dover intendere il lavoro come una sorta di conflitto civile in miniatura, nella quale i diritti vanno conquistati, con il sudore della fronte, se non addirittura con il sangue innocente. Il pensiero va alla fatica quotidiana di chi è costretto a doversi accontentare di quattro soldi, senza lo straccio di un contratto regolare; o a chi dopo anni di studio e fatica è costretto a ripiegare in occupazioni che gli si addicono poco o che attendono ancora la grazia di un posto; o a quelle donne per le quali la parità retributiva resta una chimera. “L’importante è lavorare” si dice, ma con l’ipocrita coscienza di chi sa di trovarsi a dover sbancare il lunario sulla scena dell’umana quotidianità, ostile e rapace.

Di lavoro si muore, fisicamente e nell’animo.

È paradossale dover riferire che un uomo di 72 anni,  dovesse barcamenarsi per portare a casa qualche centinaio di euro in più, oltre la pensione, spicciola e poco dignitosa. Avrebbe dovuto godersi il suo meritato riposo, magari accompagnando i nipotini al parco, oppure spendendo il suo tempo con i suoi coetanei in qualche bar o in piazza a raccontarsi della vita che è stata. Il lavoro è dignità ma talvolta viene privata della sua veste più bella per porsi al servizio degli sporchi interessi di chi specula e di chi si arricchisce. C’è invece chi nobilita il lavoro e ne da valore, non solo economico: una nota azienda ha garantito ai figli di un dipendente morto di tumore al fegato lo stipendio per tre anni, con la possibilità di vedersi finanziati gli studi fino a 26 anni.

Per fortuna c’è ancora chi gratifica il lavoro e che lo considera un valore aggiunto all’interno della comunità, gente che da lustro a quegli articoli fondamentali della nostra Costituzione, il più delle volte rimaste un mero strumento di retorica e interpretazione giuridica.

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Morire di lavoro

 
 
 

Perché la Costituzione non sia un mero strumento di fine retorica

Ha colpito qualche giorno fa la notizia della morte di un 72enne del leccese, caduto da un’altezza di cinque metri mentre era impegnato nell’installazione di un montacarichi. La notizia, alquanto dolorosa e triste, fa montare maggiormente la rabbia, in virtù del fatto che l’operaio fosse un pensionato, costretto a dover lavorare, a causa della sua situazione economica indigente. In quella stessa giornata, sono morti in Italia altri tre operai che hanno accresciuto la quota annuale delle morti bianche. Morti di giovani, morti di pensionati, il nostro Paese non riesce a risolvere un problema che ogni anno fa un sacco di vittime e i numeri non sono mai una conta piacevole da passare in rassegna. Nel 2020, anno COVID, l’INAIL ha denunciato 1538 morti sul lavoro, nel 2021 le morti bianche sono state 1221 e nel 2022, a poco meno della metà di questo anno, siamo già oltre quota 500. A questi numeri vanno associati gli infortuni e un confronto può far capire l’emergenza della sicurezza sul lavoro: nel  primo bimestre 2022 le denunce per infortunio hanno rilevato un aumento del 50% rispetto allo stesso bimestre dell’anno precedente.

Di lavoro si muore, nonostante i proclami costituzionali e le innumerevoli leggi sulla sicurezza sul lavoro. Fatalità alle volte, incuria e disattenzione molto spesso. C’è una certa relazione delle morti bianche con il lavoro irregolare, quello che chiamiamo volgarmente “nero”, morti che alle volte non sono nemmeno tracciabili. Numeri che potrebbero assumere quindi proporzioni più grandi.

Qualcuno parla di “caduti sul lavoro”, analogamente a coloro che hanno perso la vita nei conflitti bellici, tornati di moda di recente. Fa pensare tale terminologia, alla luce delle stesse leggi costituzionali che hanno dichiarato lo Stato, “una Repubblica fondata sul lavoro”. I nostri padri costituenti non hanno certo giocato di malizia. Erano anni in cui il lavoro era al centro della vita del Paese, forse anche con tinte troppo ideologiche, ma pur sempre considerato come motore trainante dello Stato democratico. Mai avrebbero dovuto pensare di fare dei distinguo tra lavoro regolare e lavoro irregolare. Ma la loro lungimiranza non aveva certo dimenticato che lo Stato avrebbe “curato la formazione e l’elevazione personale, promosso e favorito gli accordi” (art. 36) e che ci sarebbe stata la parità di retribuzione tra uomini e donne (art.37). Si potrebbe parlare degli articoli 36, in riferimento alla giusta retribuzione e, nel caso particolare del povero operaio di Lecce, dell’articolo 38 che nella fattispecie ricorda: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.

Anche tutta la legislazione, compresa quella comunitaria, successiva alla Costituzione, è volta a dare massima dignità al lavoro e alla sua sicurezza.

Ed eccoci qui di nuovo a doverne fare un astratto riferimento, a dover ricordare la conta quotidiana di morti e feriti che ci lasciano la pelle, proprio come in una guerra. Perché, alle volte, è paradossale dover intendere il lavoro come una sorta di conflitto civile in miniatura, nella quale i diritti vanno conquistati, con il sudore della fronte, se non addirittura con il sangue innocente. Il pensiero va alla fatica quotidiana di chi è costretto a doversi accontentare di quattro soldi, senza lo straccio di un contratto regolare; o a chi dopo anni di studio e fatica è costretto a ripiegare in occupazioni che gli si addicono poco o che attendono ancora la grazia di un posto; o a quelle donne per le quali la parità retributiva resta una chimera. “L’importante è lavorare” si dice, ma con l’ipocrita coscienza di chi sa di trovarsi a dover sbancare il lunario sulla scena dell’umana quotidianità, ostile e rapace.

Di lavoro si muore, fisicamente e nell’animo.

È paradossale dover riferire che un uomo di 72 anni,  dovesse barcamenarsi per portare a casa qualche centinaio di euro in più, oltre la pensione, spicciola e poco dignitosa. Avrebbe dovuto godersi il suo meritato riposo, magari accompagnando i nipotini al parco, oppure spendendo il suo tempo con i suoi coetanei in qualche bar o in piazza a raccontarsi della vita che è stata. Il lavoro è dignità ma talvolta viene privata della sua veste più bella per porsi al servizio degli sporchi interessi di chi specula e di chi si arricchisce. C’è invece chi nobilita il lavoro e ne da valore, non solo economico: una nota azienda ha garantito ai figli di un dipendente morto di tumore al fegato lo stipendio per tre anni, con la possibilità di vedersi finanziati gli studi fino a 26 anni.

Per fortuna c’è ancora chi gratifica il lavoro e che lo considera un valore aggiunto all’interno della comunità, gente che da lustro a quegli articoli fondamentali della nostra Costituzione, il più delle volte rimaste un mero strumento di retorica e interpretazione giuridica.

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Io non sono adatta a quest’epoca

 
 
 

«Il mondo ora contiene più fotografie che mattoni»
(John Szarkowski)

Siamo nell’epoca del commercio e delle immagini, fattene una ragione.

Tutto ruota intorno all’immagine.

Non c’è niente che funzioni meglio di un’immagine studiata a tavolino.

Guarda che nell’immagine devi essere tu.

Guarda che poi sembri in posa.

Guarda che devi guardare nell’obiettivo.

Guarda che non va bene farsi fotografare con gli occhiali da sole.

Per certe cose serve il fotografo professionista.

In effetti a molti piacerà moltissimo dare un volto a certe vicende.

No, ma tu sei cocciuta, invece ogni tanto devi calare la testa, ciò che si vede fa mercato.

Sei esasperante, nelle foto hai sempre gli occhiali da sole e ridi solo se sei con chi ami.

 

Va bene, abbiamo capito, avete tutti ragione, ma non considerate quello che un tempo sarei stata stanca di ripetere e che ora non ripeto più a nessuno, perché sono diventata refrattaria a tutto quanto risulti vano.

 

Io non sono adatta a questa epoca.

L’unica cosa che per me può ruotare intorno a qualcosa è la terra intorno al sole.

Le cose studiate a tavolino, a casa mia, sono fatte di lettere e numeri e se sono figure, sono quadri.

Io non so mettermi in posa.

Se mi si chiede di guardare un obiettivo, lo fulmino per principio e volontariamente.

Gli occhiali da sole servono a riparare gli occhi dai raggi ultravioletti e se ti stanno fotografando all’esterno e in quel momento, vale tutto!

Il fotografo professionista può andare a fare le campagne elettorali; e io detesto le campagne elettorali!

Quello a cui molti vogliono dare un volto è un problema di molti, non mio.

Io sono cocciuta, è vero. Ho imparato che devo dare ascolto a chi ne sa più di me, lo faccio. Ciò non significa che io non mi voglia prendere a schiaffi tutte le volte che devo andare contro la mia stessa natura, per ragioni che non staranno mai né in cielo e né in terra.

Sono esasperante, è vero anche questo: in foto ho sempre gli occhiali da sole e rido solo se ho un motivo che davvero mi stia facendo ridere. Sono io!!

 

Detto ciò, la verità è una ed una sola e potremmo addirittura farne titolo di un libro, ma un libro serio: l’utilità sessuale e commerciale dell’immagine e la sua inutilità naturale.

Vanità, vanità, tutto è vanità. Non c’è niente di nuovo sotto il sole. Una nota: questa non è Acca, questo è Qoelet. E Qoelet è parola del Signore.

Adesso sbrogliamola questa matassa, popolo di cristiani.

Amen.

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