Si chiama Gattazzo. Un nome che gli sta addosso come il suo pelo striato, morbido e deciso. Non sono stato io a trovarlo: è stato lui a scegliere me. È l’ultimo di tre randagi che, un giorno dopo l’altro, hanno deciso che il mio giardino fosse il posto giusto per vivere d’estate e la centrale termica il rifugio sicuro d’inverno.
Quando Gattazzo è arrivato, era uno straccio di gatto: magro, il pelo infeltrito, lo sguardo spento. Sembrava davvero un vecchio peluche dimenticato. Ho iniziato ad accudirlo, a spazzolarlo ogni giorno. A differenza degli altri due, Sfigatta e Arancio, che restano selvatici e guardinghi, lui ha accolto quelle cure come un dono. Spazzolarlo è diventato il nostro rito, e a lui piace, come se fosse un modo per ricordarsi che adesso non è più solo.
Col tempo è cambiato. È diventato parte di me. Mi segue ovunque, proprio come farebbe un cane, e sembra persino capire qualche comando. In quella foto, che ho scontornato, la sua zampa è saldamente appoggiata alla mia pancia. A volte mi stringe con entrambe, come se temesse che questa nuova vita, fatta di calore e fiducia, possa svanire all’improvviso.
Non è più giovane, e io lo so. Ma sapere di poterlo accompagnare e di offrirgli ancora anni sereni mi riempie di un orgoglio silenzioso, quello che si prova quando si restituisce dignità a una creatura che, forse, non credeva più di meritarla.